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|Review| Mark Lanegan: bello sciò (tra sacro e profano)

Francesco Trocchia (che documenti alla mano non sarei io se dovessero chiederlo) ha un feticismo particolare: il compulsivo accumulo di autografi di quel buontempone di Mark Lanegan, storica voce degli Screaming Trees, membro di progetti quali QOTSA e Mad Season, bluesman nero pece e grande amico di Cobain.

Ora, non è colpa mia. Lui stesso ama sedersi a fine spettacolo ed autografare ogni singolo biglietto di coloro che hanno assistito al concerto e quindi perché non dovrei, dico perché no in fondo!

Ma mi devo disintossicare. Pensa che ho ordinato una nuova cassettiera Ikea solo per contenervi gli autografi. E per l’occasione l’ho anche ribattezzata Länėgån, ti arriva in mille pezzi e ti devasta l’anima, proprio come ogni singolo pezzo del caro Mark.

Perché lo so che arriverà quel giorno in cui potrò davvero rimorchiare le ragazze dicendo: “Hey bella, che te ne direbbe di salire un po’ a casa a vedere la mia collezione di autografi di ML?”
Le farfalle non vanno più di moda, se non quelle che sento nello stomaco ogni volta, ogni sacra volta, che lo ascolto. Tra uno scotch e un altro. Tra un mio morire e il prossimo.

Tuttavia, e questo sarebbe quello che volevo scrivere se non fossi così noiosamente prolisso, è raccontarti la prima volta che ho conosciuto Mark Lanegan.
Perché sono stato vicino tanto così a farmi dare un pugno.

Bello sciò, bitch

Eravamo nel 2012, Bologna. Quel bel freddo ci tagliava la faccia in due, noi (chi noi, poi?) si era giovani, studenti, pieni di sogni in gola e Hollandia da due spicci fra le mani.

Quella sera Lanegan si esibiva all’Estragon, sputava la sua celeberrima voce vomitandoci addosso malinconia spaziando fra tutto il suo repertorio (fino a Imitations, al cui spettacolo avrei assistito in acustico al teatro Duse un paio d’anni dopo). Gelava fuori, ma dentro si andava a fuoco proprio come se avessimo da bere la sua anima fra rimasugli di un whiskey di bassa lega. Quasi tre ore di distonia, di feticismo, di passione, di morte collettiva per un palazzetto intero che arrivava lentamente ad un orgasmo mentale e poi moriva, lieto.

Come venire soddisfatti, istruzione per l’uso.
Come un tiro di una canna prima di prendere sonno.
Come l’amore.

Ma se c’è una cosa che la vita ci insegna è che tutto viene sempre rovinato da qualcosa. O nel mio caso da qualcuno.

Quindi, ricapitolando, finito il concerto eravamo tutti in fila per il tanto agognato segno sul biglietto, una roba incomprensibile, uno sputo d’inchiostro e malevolenza. Noi, poi, così stupidi manco fossimo adolescenti. Ma tutti lì.

No, ma non mi importa.
No ma chissene.
No ma all fine resto.

Eravamo anche bugiardi, falsi nel midollo, languidi farabutti che non avevano il coraggio di ammetterlo che stare lì in fila un paio d’ore fosse quello che tutti noi volevamo.

In questo, almeno lui era sincero. Lui, il tizio con le Nike Squalo e il bomberino davanti a me. Sprizzava gioia da ogni pertugio il buon Dio gli avesse donato e guai a chiederlo quanti fori quest’uomo avesse, io non voglio saperlo. In preda a scintille, magari spasmi, non la smetteva di muoversi ininterrottamente facendomi girare gli occhi e i coglioni. Saltava sul posto, si agitava, faceva rotolare le mani in circolo che le ragazze del pilates avrebbero provato invidia. Una scossa elettrica sotto al mio grugno.

Ma soprattutto sembrava fuori posto. Prendi un fan di Gigi Dag e sbattilo in una darkroom a masticare blues e hai l’idea di cosa stesse accadendo. Doveva sì, finire male.
Ma non credevo per me.

Perché luce fu. Venne il suo momento.
Per chi l’ha conosciuto sarà noto, fatto sta che ML è un maledetto energumeno, alto un paio di metri e con le spalle larghe quanto la mia fedele Yaris. Indossava la sua solita maglietta a maniche lunghe nera, appena aderente, e un cappellino con il simbolo della MLB all’indietro. Sembrava una montagna nascosto dietro ad stupido banchetto, quello sguardo torvo che lo contraddistingue, poi, lo rendeva ancor di più simile al monte Sauron.

Fatto sta che venne il suo momento, suo del tizio a me davanti, ed io ad appena 48 centimetri.

Questo si tirò indietro il berretto di lana tenendolo con la mano sinistra mentre la destra disegnava una circonferenza per aria, traiettoria che sarebbe finita con un suono sordo e trionfale sulla spalla del buon Lanegan. Io la vidi la sua espressione, passare da quel torvo cumulo di occhi ad un inquietante sbigottimento. Sarebbe potuta finire lì, con una pacca sulla spalla un po’ troppo energica, e un po’ troppo rapida che neppure i tizi della security seppero reagire.
E invece no, perché se c’è una cosa che la vita ci insegna è che quando tutto viene rovinato da qualcosa, andrà sempre peggio.

Allora, la poesia. Perché lo riconobbi quell’accento così ridondante nella mia vita, piccolo rimasuglio di un’infanzia sbiadita. Eravamo praticamente conterranei sebbene io ci abbia vissuto poco o nulla e non parli dialetto. Eppure lo riconobbi. Credo sia stato quel WAAAAAAAAAAAAA iniziale, ma non ne sono sicuro. Però queste parole (vado di traslitterazione letterale) vennero accolte nell’etere:

Waaaaaaaa… Mark Leneganno! Bello sciò, bello sciò.

Quel bello sciò non smetteva di tuonare accompagnato dai paccheri che il tizio spandeva sulle spalle di Lanegan. Più che sbigottito, era in frantumi la sua voglia di lasciarlo vivo. Bello sciò, ancora e ancora. Sembrava assalito da un attacco di Tourette, sembrava un diamante grezzo che toccava con mano (tutta per la precisione) le scaglie del paradiso. E questo moderno Prometeo ci lasciò tutti di sasso quando prese il suo biglietto autografato e se ne andò, così, non prima di urlare ancora un gret, gret sciò. Tutti di sasso. E io a 35 centimetri.

Chi mi conosce sa che quando sono in difficoltà solitamente mi gonfio come una mongolfiera e dico boiate. Non riesco, quel silenzio altrimenti mi sventra a poco a poco. Quella sera il mio disagio prese forma di un sorriso ebete che mi tagliava trasversalmente il viso come un Jocker post-moderno e in post-sbronza. Avanzai di 5 centimetri allargando le mani. Avanzai di altri 10 e credo che il pollice assunse la tipica attitudine da OK, feci gli ultimi 10 centimetri e… cazzo, stupido Fra… dissi con quel sorriso da cretino un hey.

Morii di vergogna. Da Fonzie.

Cioè non tanto io da solo, ma furono gli occhi di Mark Lanegan addosso a pesarmi come un macigno, come tonnellate di concime sul mio copro disteso tre metri sotto terra.

Io che non avevo fatto nulla eppure mi sentivo colpevole.
Io che non avevo fatto nulla eppure le uniche parole che Lanegan mi disse furono:

Shut the fuck up or I punch your face.

Presi il mio biglietto. Tra gli sguardi disgustati della security uscii di fretta.
Sul biglietto uno scarabocchio incomprensibile con iniziali sconnesse, una pareva una V e l’altra una chiazza di vomito. Avevo fatto schifo. E avevo vinto.

Di fuori, nel parcheggio dell’Estragon, il mio volto dipinto di un sorriso ebete, quell’hey, la notte di Bologna che mi spezzava in due, e la poesia.

Mark, Cristo… davvero un bello sciò. ❤️

Di Francesco Trocchia