Review

IT’S ALIVE: Johnny Cash – At Folsom Prison (1968)

Dopo esser stati su e giù da un palco con Luciano Ligabue e aver rivissuto tra musica e immagini il concerto del 2013 dei Muse a Roma, il terzo appuntamento della rubrica  IT’S ALIVE torna indietro nel tempo.

Siamo alla fine degli anni Sessanta e il protagonista è Johnny Cash  con i suoi due straordinari concerti al carcere di Folsom, dai quali è stato tratto un disco pubblicato nel 1968 e riedito nel 2003.

Tra le tante avventure vissute da The Man in Black che si possono raccontare ce ne sono un paio che, per fortuna, sono state impresse in immagini d’epoca e nei solchi del vinile.

Due diverse esibizioni interpretate il 13 gennaio del 1968 per un pubblico molto particolare. Quel genere di pubblico che vede poca luce del sole, nonostante soggiorni  in uno degli stati più soleggiati degli Stati Uniti.

Un disco live unico nel suo genere. Unico come la location che ha ospitato le due esibizioni: un edificio che toglie il fiato, la libertà e – in alcuni casi – la vita.

Parliamo del carcere di Folsom, a Sacramento in California.

Folsom copre un’area di centottanta ettari…. Ci sono soltanto tre muri. Il quarto muro è in fondo a un cortile creato spianando una collina, e in realtà è una gola in cui gorgoglia e spumeggia l’American River. Un detenuto imbecille una volta si trasformò in un sottomarino umano, con tanto di tubo respiratorio e tasche zavorrate, ma ha sopravvalutato la sua spinta di galleggiamento e finì sul fondo annegando. Le possibilità di raggiungere il fiume sono minime (…). La storia di Folsom è brutale e imbrattata di sangue.

(Eduard Bunker in Educazione di una canaglia

Canaglie, come lo scrittore Eduard Bunker o come il protagonista del suo singolo del 1956 Folsom Prison Blues. Il personaggio della canzone parla di un treno, di un sole che non vede più e chissà quando lo rivedrà perché è lì dentro. Rinchiuso nel carcere di Folsom.

Una canzone triste e malinconica, nonostante il ritmo quasi allegro e sostenuto in netto contrasto con il testo. Una canzone che fotografa la condizione di un uomo senza però lasciare spazio a pentitismi o a recriminazioni.

Il disco inizia proprio con questa canzone come a voler rendere omaggio a tutti quei disgraziati ammantati da un velo di tragica ironia per la loro condizione di vita.

Pochi mesi dopo la Summer Of Love che rivoluzionerà per sempre la storia della musica e non solo,  Johnny Cash è determinato a mettere in campo la sua di rivoluzione e a spostare il proiettore vero un’altra America, volgendo lo  sguardo verso gli ultimi, verso i reietti per coprirli con un velo invisibile fatto di  di redenzione e spiritualità.

Sempre in bilico tra sacro e profano il cantautorato folk- country dell’uomo in nero mette in scena due concerti all’interno del carcere di Folsom: il primo dalle 9.40 e il secondo dalle 12.40 del 13 gennaio.

Grazie al supporto di June Carter, Carl Perkins e i Tennessee Three, confeziona per la Columbia Records uno dei dischi live più importanti (per il valore simbolico, storico e politico) della storia cantautoriale americana.

Senza andare nel dettaglio delle singole canzoni è però rilevante soffermarsi sull’ultima, quella che chiude il disco.

Greystone Chapel è stata scritta  da uno dei detenuti, Glen Sherley. La leggenda narra che Johnny Cash sentì questa canzone in una registrazione molto artigianale interpretata dallo stesso Sherley grazie all’intercessione del cappellano della prigione.

Dopo averla sentita e mai cantata prima, Cash volle includerla nella scaletta dei due concerti. Facendo addirittura il bis nel concerto delle 12.40.

Cash inoltre tornerà ad esibirsi in un altro carcere, quello di San Quintino (sempre in California) un anno dopo e dal quale trarrà il secondo epico album di questo mini tour carcerario perché come canta nella sua Man in Black del 1971:

Indosso il nero per i poveri e gli emarginati

che vivono nel lato senza speranza e affamato della città

Lo uso per il prigioniero che ha da tempo pagato per il suo crimine

Ma è lì perché è una vittima dei tempi.

 di Damiano Sabuzi Giuliani