A Edda si vuole bene: è questo che fa di noi, il suo pubblico, una sorta di famiglia e lui è come un nostro fratellone.
Stefano Rampoldi, in arte Edda, cantante e chitarrista, icona degli anni ’90 della scena milanese, all’epoca voce dei Ritmo Tribale, sta portando in questo periodo in giro il suo quinto album da solista: Fru Fru.
Edda è un puro, indubbiamente uomo dell’avanguardia. Ha infatti sperimentato, prima delle mode, un nuovo tipo di cantato, fonte di ispirazione per le generazioni successive.
Dopo i Ritmo Tribale e la disintossicazione aveva abbandonato il mondo della musica, per tornare nel 2009, accolto con immenso affetto, con Semper Biot.
Poeta minimalista, dalla voce nasale e dall’animo candido, cantautore unico, quasi sicuramente sottovalutato, è arrivato al Monk di Roma a presentare il suo ultimo lavoro in grandissima forma.
Lo scorso anno, teneramente, ci aveva salutati scusandosi infinite volte: a un certo punto la voce lo aveva abbandonato.
Tutto il riscatto sta nell’esibizione di quest’anno: splendido, brillante, emozionante, naturalmente sfrontato.
Avrebbe dovuto registrare un sold out, se lo sarebbe meritato, ma eravamo “solo” una buona metà sala. I giusti, chiamiamoci così.
In scaletta i nuovi brani, tra cui la mia preferita Samsara, e quelli che sono ormai dei classici. Ho saltato con gli altri su Zigulì e mi sono ultra commossa su Spaziale.
Il tutto è stato accompagnato dai suoi racconti di vita, più o meno (e il fatto meraviglioso è proprio che si può scommettere sul “meno”) romanzati. Un live bello, bello, bello.
L’album precedente, Graziosa Utopia, è stato davvero un gioiellino, un lavoro di alto livello, che ha contribuito a definire la qualità artistica. Avvolgente, delicato, colmo di tutti i riferimenti della vita di Edda, che dopo 2 anni si presenta con questo simbolo di leggerezza, Fru Fru, sotto la direzione artistica di Luca Bossi.
Continua sulla linea di Graziosa Utopia, ma è più pop-rock, impudico, più inno (vedi Italia Gay), fino ad arrivare allo spirituale (con riferimento alla ballata per la madre, Edda). È sempre il solito Rampoldi, ma evoluto in qualcosa di nuovo, istrionico come al solito.
Questa voglia, questo messaggio di leggerezza, è quel wafer sulla copertina dell’album. Lo scherno intelligente nei suoi testi.
L’ironia è sinonimo di intelligenza ed Edda è tanto ironico e provocatorio. Come dice lui, per esempio, Italia Gay è un augurio. Gay come felice, come sinonimo di ricerca di se stessi e di valorizzazione, una resistenza alle brutture che affliggono questo Paese.
Un disco che si colloca con estrema disinvoltura tra l’offerta odierna e non risulta come un lavoro in una torre d’avorio, anche perché Edda non rimane mai distante da ciò che gli sta intorno: sembra sempre non guardare nessuno con disprezzo, al massimo ha ogni volta quel piglio ironico, appunto.
I temi dei 9 singoli, come li chiama lui: il sesso e l’emozione, la sensibilità e anche la felicità, questo “frufru”, che è un termine che io adoro e ho sempre usato, più San Francesco e meno Sant’Agostino, un’alta dose di spiritualismo, un continuo legame mai rinnegato dei suoi estremi, poi ancora gli Strokes, Raffaella Carrà come riferimenti.
Un mix di tutto quello che fa di lui speciale, anzi, spaziale.
Foto di Mattia la Torre