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Motta, Estragon, 28 Maggio 2018

Motta

Estragon,buio.

Il palco si anima al battito di un cuore che pompa percussioni, poi batteria, poi piano e sinth, le luci lo seguono: i tempi sono dilatati, è una lunga intro strumentale che prende la forma della rincorsa prima di un salto. Ed è un po’ come essere felice, Francesco Motta emerge al centro del palco quasi fosse un ologramma generato da queste onde sonore, dilatati anche lui e la sua voce.

Una platea che pare ipnotizzata e che potrebbe non aver sbattuto le palpebre fino a che “France”(così lo chiamano gli amici, pare) non scende giù dal palco calandosi in mezzo alla folla quasi facendo spallucce a dire “No macchè io voglio venire giù con voi”. E là, esplode.

E’ lampante che Motta sia cresciuto davvero nel giro di un solo anno: è un Motta diverso, meno schivo, la timidezza del primo tour viene spazzata via da corse e balli tra la folla e il palco.

All’ultima nota del pezzo sembra quasi volersi scusare per il moto euforico appena avuto dicendo:

Ma come ho fatto a stare senza di voi per un anno? Come ho fatto? Mi eravate veramente mancati”

 

Schietto, diretto, forse un po’ naif, ma sicuramente sincero detto da un musicista che sembra finalmente essersi guadagnato il suo giusto spazio sui palchi.

Francesco torna sul palco ad un anno dal suo primo tour, per presentare il suo secondo album studio, Vivere o Morire, e Bologna e l’Estragon sono stati scelti come seconda delle quattro anteprime del Vivere o Morire Tour, che partirà a luglio.

Sul palco come nel disco dunque vediamo e sentiamo un Francesco Motta più libero, leggero, sicuro. I capelli sono più lunghi ma sembrano pesargli meno, le braccia libere, quasi quasi sembra anche più alto.

La fine dei vent’anni inizia quasi di rimbalzo a ricordarci che prima della sicurezza e del successo ci sono l’incertezza, l’affanno, le difficoltà. Vivere o Morire è la prova che si può riuscire ad arrivare al momento del “vaffanculo” ai demoni, e i demoni se ne vanno, o si trasformano in marmo, diventando statue che possono abbellire le nostre case. La prima volta che ho sentito La fine dei vent’anni, ho pensato che fosse la parafrasi di una qualche poesia moderna. Al secondo ascolto dal vivo (il primo al Biografilm Festival, l’anno scorso), l’idea è rimasta la stessa: il testo, le melodie di chitarre pulite  che da minori diventano maggiori, suonate meglio che in album dalla band, toccano almeno una corda nel cuore di tutti i presenti.

E’ a questo punto che Motta ci presenta finalmente la band, o meglio la sua famiglia, come dice lui. E’ un momento che, come nella vita di tutti i giorni, tutti gli amici aspettano con ansia, onorati. I fratelli di Francesco sono Federico Camici, al basso, Simone Padovano, alle percussioni, Cesare Pettulicchio, alla batteria, e Leonardo Milani, tastiere, e cori, e domande, e risposte.

Motta e la sua famiglia sono un’unica cosa sul palco dell’Estragon, perfettamente in armonia ed equilibrio, che quasi ci si dimentica di essere al concerto di un “solista”, a tratti.

Bilanciati ed equilibrati come la scaletta scelta per questa data, che prende, impasta e amalgama perfettamente tematiche e melodie del primo e del secondo disco, che seppur così diversi, diventano complementari. L’amore riempe l’aria e i muri del locale con Quello che siamo diventati e la sua voglia di prendere una mano e correre via, la paura di tuffarsi e di lasciarsi andare di Vivere o Morire, e dove quando come  nasce questo contrasto di pensieri parole in La Prima Volta.

Chissà dove sarai è una stilettata al cuore, “in equilibrio perfetto tra tutto quello che ho perso e tutto quello che ho scelto”. A legare poi insieme Per amore e basta e Prima o poi ci  passerà ci pensa Motta, con una richiesta particolare:

Se a 50 anni sarò ancora lì a voler fare il giovane, vi prego, uccidetemi”

 

…Chiarisce abbastanza bene cosa pensa di chi non vuole crescere, dei Peter Pan, di chi non va avanti. Le sue parole per una certa ragazza, che nomina spesso durante il live, e il suo ultimo disco palesano il raggiungimento di una nuova maturità sentimentale, oltre che artistica.

Del tempo che passa la felicità merita una intro lunga quasi quanto quella d’apertura e un gran bel assolo di chitarra, con l’arricchimento del tema di batteria e percussioni che sanno un po’di America latina, che accompagneranno tutto il live e che si ritrovano in quest’ultimo disco. Merito di un viaggio a Cuba, questo è quello che sappiamo. Lunghe intro e tema cubano che troveremo ad arricchire anche, poco dopo, Roma stasera e Se continuiamo a correre, collaborazione con l’amico Alessandro Alosi (Il Pan Del Diavolo).

In tutto questo Motta fa su e giù dal palco usandolo quasi come fosse un trampolino, tra tuffi sulla folla e crowd surfing, per poi ad un certo punto salire prima sul palco, poi in groppa  al chitarrista. Buona così.

Ci avviciniamo alla fine di questa data 0.2 del Vivere o Morire Tour accompagnati dalla malinconia, il senso di colpa e di inadeguatezza di Abbiamo vinto un’altra guerra, di quella fine dei vent’anni, il romanticismo di Sei bella davvero, che fa sentire tutte le ragazze presenti un po’ chiamate in causa, come se quella canzone ce la stesse dedicando personalmente. Poi la spensieratezza di La nostra ultima canzone, di qualcuno che ha fatto pace con se stesso, e che quella pace quindi è riuscito anche a trovarla in qualcun altro.

In pre chiusura, Motta non fa un tuffo sulla folla, ma nel passato si: Fango, dei Criminal Jokers, che forse alcuni in sala non conoscono, prima band di Francesco Motta.

In chiusura, una storia, una lacrimuccia, una canzone che ha scritto per il suo babbo, che non si può spiegare, che non si riesce a spiegare.  “Babbo, siamo ancora in tempo”. Mi parli di te.

 

Da vedere, da provare, da rivedere.

Francesco Motta, tra il marasma di Indie-cose che sbrodolano da tutte le parti, dimostra, di nuovo, di essere uno tra i pochi rimasti che sa quello che fa, e sa farlo bene.