Come definire il suono di Kamasi Washington? È musica dallo spirito, per lo spirito.
Noto al grandissimo pubblico per aver lavorato con Kendrick Lamar, aveva già collaborato, però, anche con artisti del calibro di Herbie Hancock, Flying Lotus, Thundercat, Lauryn Hill e molti altri.
Il sassofonista californiano raggiunge il successo nel 2015 con il quarto album, un disco triplo, The Epic. Nel 2018 è uscito Heaven And Earth, i due luoghi dove gravitano le sue note, ossia ovunque.
Kamasi pensa e fa in grande e produce moltissimo.
Il jazz, questo genere controverso, diciamolo apertamente: chi davvero ne capisce e lo apprezza sul serio è raro. Perché è un mondo infinito, a volte un calderone, devi sapere davvero cosa bolle in pentola per poterne godere.
Questa è la genialità di Kamasi: renderlo quasi pop, universalmente godibile. Per questo fa più che bene a ragionare per grandi obiettivi, a cui arriva perfettamente.
La scorsa sera, al Magnolia, questo gigante sassofonista ha suonato con la sua band. È stato una cura di benessere, una vibrazione delle corde interiori, un ricongiungersi con parti di sè stessi perse chissà dove.
Lo strumento come voce, la voce usata per avere un’ottima comunicazione col pubblico, un coinvolgimento a tutto tondo. Ogni componente della band è enorme, ciascuno di loro è un mostro di bravura, un architetto del suono, ma non monade isolata, si fonde con gli altri: un equilibrio ineccepibile, il valore della musica stessa, quella eterna e di inviolabile sacralità. Tra di loro anche una donna, creatura dal canto ultraterreno.
Ha aperto il concerto Masego, polistrumentista statunitense: suona chitarra, basso, batteria, pianoforte e sassofono, di radici giamaicane. Ha debuttato sul mercato lo scorso settembre con il disco Lady Lady. Genere fusion, un r’n’b con toni hip hop, sintetizzatori con sfondo jazz. Ha tenuto decisamente alto l’umore del pubblico, di età decisamente eterogenea, che non ha potuto fare a meno di ballare. Performance eccellente, con tanto di lancio di rose e di banconote.
Kamasi Washington è il Leonardo Da Vinci del jazz: esponente massimo del suo Rinascimento.
Ascoltarlo è un’esperienza multisensoriale, che suscita in mente immagini, ti trasporta in luoghi dove non sei mai stato, colora la tua visione, suscita mille sentimenti: è un privilegio.
Il musicista trentottenne è indiscutibilmente da considerarsi in definitiva un pilastro della musica, un intoccabile e affascinate idolo. Io, che certo non sono né un’esperta del genere né tantomeno una profonda conoscitrice, ho ritrovato interesse con lui come con Coleman e Coltrane.
Lo strumento, il sassofono, è come se fosse lui stesso, sono una fusione, come se uno non si possa separare dall’altro. Il risultato è un lavoro concettuale, che però non rimane criptico e, quindi, riesce ad arrivare a chiunque decida di approcciare all’ascolto, sicuramente non sempre facile, ma mai distante ed estraneo.
Kamasi Washington è l’unione tra quel pianeta da molti considerato lontano e poco abitabile del jazz e il più in voga dei generi mainstream di oggi, oltre le convenzioni e i pregiudizi. Come dice lui stesso, il suo intento è rendere la musica più grande della politica.