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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [23]

“Welcome to my nightmare, I think you’re gonna like it”.

Il passaggio di consegne tra anni ’60 e ’70 si rivelò uno spartiacque fondamentale  nell’elevare le ambizioni della pop music, da semplice entertainment a vera e propria forma d’arte. Il prog, il glam, i concept album: erano tutte componenti essenziali di una visione ora più intellettuale, mirata a emancipare il rock dai parametri radio friendly attraverso un concetto di canzone diverso, dalla struttura libera, diluita e complessa (il prog), o magari sviluppando un’idea di big music sempre più onnicomprensiva e multimediale in cui far convergere arte e spettacolo, cultura pop e intrattenimento (il glam secondo David Bowie e l’art rock tout court).

L’affermazione dei concept, in particolare, consuetudine comune a entrambi (ma non solo), permise al rock di avvicinarsi alla drammaturgia, al teatro, al cinema, sposando musica e parole, suoni e narrazione.

Due volti della stessa medaglia legati da un leitmotiv o da trame più vicine allo script di una sceneggiatura che al semplice testo di una canzone. Se a sdoganare le rock opera, dopo gli input seminali di Pretty Things e Who, saranno proprio gli avamposti del prog, nella prima metà degli anni ’70 ci sarà però chi riuscirà ad accentuarne la teatralità e le sfumature cinematografiche, rendendole una sorta di variante rock’n’roll dei musical di Broadway (ben prima di Jim Steinman).

Si tratta di Bob Ezrin, co-produttore di The Wall dei Pink Floyd nel ’79, ma in precedenza principale responsabile della svolta cerebrale di Lou Reed in Berlin (1973), concept sinfonico e decadente appesantito da orchestrazioni in grado di conferire alle liriche dell’ex leader dei Velvet Underground un’aura ancor più morbosa e maledetta. Sarà più o meno lo stesso trattamento riservato al debut da solista di uno dei grandi madmen della storia, fin lì alfiere con la sua band di quello shock rock che tanto influenzerà il metal anni ’80.

Lui è un certo Vincent Damon Furnier, istrionico frontman degli Alice Cooper che, sciolto il gruppo e appropriatosi del monicker, nel ’74 esordirà a sua volta con un’agghiacciante pièce dai risvolti autobiografici sui turbamenti di una psiche pericolosamente incline alla follia.

Quella del giovane Steven, presunto serial killer perennemente sospeso tra realtà e illusione,  intrappolato in un angosciante incubo in cui dar libero sfogo a manie omicide e tendenze necrofile. Supportato dalla stessa backing band di Reed in Berlin e da uno special guest d’eccezione come Vincent Price, icona di quel cinema horror tanto caro al cantante di Detroit, Alice Cooper darà così subito vita al suo capolavoro: Welcome To My Nightmare, la perfetta sintesi tra shock rock e un’indole teatrale ora libera di essere sprigionata attraverso undici tracce borderline in bilico tra hard rock, funky, gospel e persino vaudeville.

Un’opera magniloquente immersa in atmosfere sempre più malate e grottesche, esaltate da soluzioni stilistiche quanto mai ambiziose ma al contempo stemperate da quella sottile vena sardonica tipica del personaggio.

Una grandeur tangibile sin dall’emblematica titletrack, pomposa opener innervata da fiati di stampo Philly Soul e dai continui incastri delle chitarre di Steve Hunter e Dick Wagner, all’epoca coppia d’oro di tutte le più importanti produzioni firmate Ezrin.

Indicato il cammino, Steven prosegue la sua discesa nella follia con il micidiale dittico proto-metal Devil’s Food/The Black Widow, legate dal sinistro monologo de “Il Curatore” (Price), più tardi alle prese con un ruolo analogo in Thriller di Michael Jackson. Some Folks inizia a rivelare le prime influenze da music hall, un piccolo cabaret dell’orrore che darà ufficialmente il via ai crimini di Steven, particolarmente ossessionato dalle donne e dai loro cadaveri (il macabro resoconto necrofilo di Cold Ethyl, trascinante hard rock targato seventies vicino alle tentazioni airplay di Department Of Youth).

Nel mezzo, il pezzo forse più anacronistico (ma anche uno dei più celebri) dell’intera discografia di Alice Cooper: la ballad “Only Women Bleed”, brano controverso che nasconde, dietro le crudeltà perpetrate dal protagonista ai danni della moglie, una profonda riflessione sulla condizione delle vittime di violenza domestica.

Sarà uno dei suoi brani di maggior successo, coverizzato a più riprese persino da artisti distanti anni luce da quell’immaginario tutto ghigliottine e boa constrictor (Etta James in ben due occasioni). Il vertice assoluto dell’album arriva, però, con l’inquietante marcetta circense di Years Ago, lugubre indagine sulle origini del male seguita dall’allucinato delirio schizofrenico di Steven, impreziosito da una performance da brividi di Cooper, qui all’apice del suo psicodramma esistenziale, e da un arrangiamento barocco sospinto da un pianoforte bachiano verso un climax di angoscia e disperazione (I must be dreaming, please stop screaming).

Non era, però, un sogno: il truce risveglio di “The Awakening” porrà fine a ogni dubbio sulla reale identità di Steven, uxoricida imperturbabile ormai del tutto succube di quel diabolico alter ego dai tratti fin troppo simili a una certa strega di Detroit (“Escape”).

Archiviato Welcome To My Nightmare con un curioso special televisivo, Alice Cooper: The Nightmare, ancora in compagnia di Vincent Price, Alice Cooper finirà per essere inghiottito da quegli stessi demoni evocati, sotto forma di vedove nere e scheletri danzanti, nel suo testamento spirituale. Si risolleverà negli anni ’80, con l’affermazione dell’hair e del glam metal, filone che dominerà le classifiche del decennio ispirato proprio dalla sua musica, fino a rispolverare la saga di Steven nel 2011 con Welcome 2 My Nightmare.

Un sequel, a conti fatti, trascurabile se rapportato al suo ingombrante predecessore, nonostante il recupero del sodalizio con Ezrin e della stessa band che nei primi anni ’70 aveva scandalizzato gli States mescolando rock’n’roll e Grand Guignol.

Continuerà a farlo  per oltre mezzo secolo, seppur con risultati decisamente meno impressionanti. Perché certi incubi, a volte, ritornano. Soprattutto se ti chiami Alice Cooper.

di Francesco Sacco