|Live Report| Blonde Readhead @ L’Aéronef – Lille (Fr)

Non nascondo di provare un certo timore ogni volta che mi decido a vedere un gruppo e/o un artista che non è esattamente contemporaneo. Non sai mai se pentirti per la performance – lontana anni luce da quella che hai conosciuto negli anni in cui, a volte, non eri nemmeno nata – oppure godere di una piacevole sorpresa nel vedere ancora un’ottima esibizione. Nel caso dei Blonde Redhead ho riposto fiducia nella grinta che vidi 18 anni fa, quando si esibirono all’Estragon di Bologna e nessuno di noi – né io, né loro – aveva ancora i capelli bianchi. E fa un certo effetto pensare a un concerto visto nel 2005, ti fa sentire il peso degli anni, quelli che a volte fai fatica ad accettare che siano passati.

La band già all’epoca la avevo annoverata tra le piacevoli sorprese. Sicuramente non sono anziani come altri miei beniamini che mi è capitato di vedere dal vivo, ma suonano pur sempre da più di 30 anni e non sono esattamente dei ragazzini. Il compito di aprire la serata viene affidato alla voce calda e sognante di Núria Graham, cantautrice catalana che ci coccola mentre siamo intenti a sbrinarci per essere pronti a una ventata di “nostalgia canaglia” in musica.

Le luci si riaccendono, la gente raddoppia e l’età media pure. Un vociare allegro ma contenuto si diffonde in sala, attendiamo impazienti l’arrivo del gruppo statunitense (d’adozione, notoriamente le origini del gruppo sono giapponesi – Kazu Makino – e italiane – i fratelli gemelli Amedeo e Simone Pace).

Le luci si rispengono e i fari illuminano una scenografia decisamente kitsch davanti la quale irrompono stilosi i tre artisti. L’amico francese, venuto in avanscoperta, mi fa notare che sono entrati senza salutare il pubblico. Ma già dopo qualche pezzo lo vedo preso dall’ascolto, al punto da perdonare loro questo affronto alle buone maniere tanto care ai nostri “cugini” d’oltralpe. 

 

I Blonde Redhead tornano in studio dopo 9 anni dall’ultimo disco (Barragàn) – sebbene non abbiano mai smesso di essere in tour – per dare vita a Sit down for dinner. Un disco che, senza troppa vergogna, ammetto di non avere  ascoltato prima del concerto. Un po’ come quando non guardi il trailer di alcuni film di autori che già conosci: vai a fiducia e ti godi la sorpresa, senza paura di creare certe attese – o peggio – pregiudizi. 

La scaletta fa avanti e indietro nel tempo, proponendo qualche hit del passato come Elephant Woman, 23 e Bipolar, anche se a parte quest’ultima non si spingono oltre il 2004. La maggioranza dei brani, anche quelli suonati durante il bis, appartengono all’ultimo album che mi sembra essere decisamente più pacato rispetto ai lavori precedenti.

Amedeo Pace e Kazu Makino si muovono complici e veloci tra innumerevoli cambi di strumenti, mentre Simone Pace dietro la sua batteria segna il tempo, impassibile come un samurai. L’atmosfera è calda e ritmata, le voci dei cantanti si alternano e quella di Kazu Makino colpisce particolarmente perché, pur non essendo bella secondo canoni classici, sa catalizzare.

 

 

E mi perdo in pensieri, muovendomi a ritmo di chitarre distorte e variopinti riff. Molto spesso mi capita di riflettere su quanto sia difficile scrivere di musica. Tradurre in parole quello che vedi e ascolti. Mi trovo sempre in difficoltà, come se stessi facendo la cosa sbagliata. Come se, parlando di musica, stessi ballando di architettura, per citare il caro vecchio Frank Zappa. 

Tra un pensiero e un altro la fine del concerto arriva e Kazu Makino si intrattiene in inchini e ringraziamenti al pubblico, mentre i gemelli Pace si dileguano frettolosamente. Vedo la faccia compiaciuta dell’amico francese per aver visto l’ordine delle cose ripristinato nell’ambito buone maniere. E per avergli fatto scoprire una chicca di questi anni ’90 che ancora oggi ci stupiscono e non ci stancano mai. E ci uniscono, in nome della buona musica.

 

di Ilaria Sgrò