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Il mea cülpa

Mea Culpa

A volte nella vita succedono cose strane e puoi farci ben poco.

Dal canto mio percepisco il mondo strutturato in vari livelli, una piccola e piacevole dissociazione dalla realtà che mi porta a vivere una situazione, sentirne una seconda, immaginarne una terza e così via. Ma il fatto è che le vivo tutte con la stessa intensità finché accade che non riesca a rendermi conto di quale sia quella originale, quella che chiamiamo realtà. Ma poi, importa davvero?

Com’è ovvio in questi attimi la musica svolge un importante strumento dissociativo, forse lo stimolo principale.
Ecco, di questo vi scrivo oggi.

Un paio di mesi fa mi è capitato qualcosa di simpatico, se così vogliamo definire essere scelto come padrino di cresima.
Io, già. Non è tanto l’essere ateo o l’aver friendzionato il divino, è che fra le incombenze che spettano a questo ruolo c’è la confessione, cosa per uno che soffre di agiofobia, credetemi, non è cosa da poco.

Quindi non è colpa mia (almeno è quello che dirò al mio psicologo) se in quei momenti mi son saliti forte gli Hüsker Dü e la loro I apologize.

Andiamo, tutti insieme, pugni che battono sul petto e recitiamo assieme questo mea cülpa generazionale, dü dü dü, dä dä dä. Ma che mi dice il cervello?

Traccia 03, l’alba del nuovo giorno per il nuovo me

Una lugubre ansia, la cera delle candele che soffiavano quelle spocchiose ombre tenui sul mio volto. Tenevo i piedi bene in coda attendendo il mio turno mentre gli occhi di Santa Rita a lutto mi tagliavano la visione periferica. Due metri di statua a nero vestita. Sudavo appena, solo un poco, e gelide gocce d’acqua mi graffiavano la schiena. Io lì nel mezzo di una folla in attesa dell’esaminazione, eppure l’unico in preda al terrore. Fra sorrisi e battute, questa mia sagoma demoniaca in un covo di luce come l’alba che si risucchia il nuovo dì.

Fu allora che dovetti iniziare a pensarci.

Non andavo bene, sembravo la testimonianza pura di quanto il fallimento dell’evoluzione umana potesse ambire. Un disastro sin da bambino. Il Marcellino pane e vino ineffabile ed inadattabile che canticchiava ritornelli garage rock.
Ma non parlavo solo di me, pensavo alla mia intera generazione. Noi che avevamo sniffato Crystal Ball e scoperto troppo tardi le radici del grunge. E gli amori, le promesse e quei per sempre, cumuli di fallimenti sulle scapole che pesano più dei chiodi di un Cristo alla mia sinistra in fondo alla navata. Le recite, bugie, falsità. In mezzo a tutto per sbaglio, fra il cd e lo streaming musicale persi nel vuoto dell’ansia, i biglietti dai bagarini e questi sogni schiacciati fra le transenne in prima fila. Noi figli di merda. Il silenzio assordante che proviamo quando parlano di noi, quando parliamo di noi, quando un cretino scrive di noi un articolo senza senso come questo.
No, non siamo qui per le parole ma per i ripensamenti ed il perdono. Noi non parliamo ma creiamo castelli con le nostre librerie musicali, spegniamo incendi in camera con le cuffie stesi a letto. Noi che senza lavoro abbiamo dimenticato il suono che fa il nostro piangere a trent’anni.
Siamo la generazione che vive soltanto premendo play e il resto è l’Hiroshima che ci portiamo dietro.
”Questa chiesa mi sta facendo sentire come il peggior peccatore del mondo” pensai. E forse lo ero per davvero.

Quando la porta si aprì, un fascio di luce celestiale mi accecò gli occhi neri che Satana mi aveva concesso. Una musica soffusa traghettata intorno e una mano che mi invitava ad entrare.
M’avvolse, m’accese, entrai.

I apolo-I apologize
I apologize
I apologize

Il curato mi invitò a sedermi. Osservandomi dall’alto del suo pulpito mi scrutava come si fa con i malcapitati, i reietti, gli storpi. Ciò che però mi metteva più ansia era quello strano concilio di figure angeliche, gente in saio disposta a semicerchio e tre putti mezzi nudi, Greg, Grant e Bob. Gli occhi addosso a me.

Fossi stato zitto me la sarei cavata con meno. Avessi mentito oppure, bastava dire in fondo che mi ero confessato un paio di giorni prima o che (bestemmia) la mia condotta morale era ineccepibile e pertanto non avevo nulla da condividere con le alte sfere della curia o con il grande boss dei cieli.

Invece vuotai il sacco, vuoi per l’ansia, vuoi per gli occhi di cera di Santa Rita che stronza non la smetteva di fissarmi, vuoi perché mi sentivo la peggior persona vivente. Vuoi per quel dannato coro che si incuriosiva a me e a quella mia maglietta piena di dieresi sulle u.

“Vede, padre. Sono il peggior figlio che la terra abbia mai visto. Lo chieda a mio padre, a mia madre, a chi ho tradito, a chi ho spezzato i pianti, a chi ho sputato in volto, a coloro che ho sbeffeggiato, schifato, ignorato, amato, dimenticato. Nessuno meriterebbe così tanto soqquadro concentrato in un metro e ottanta e due spalle larghe come ante di un armadio dove scheletri muoiono appesi all’osso carotideo.”

E mentre vuotavo il sacco, parlavo senza motivo della mia depressione, del male, di quell’ombra nera in questa piccola anima. Ad ogni sussulto delle mie labbra il parroco annuiva, indulgeva e pretendeva che il demonio uscisse da dentro. Sentivo quei suoi occhi divorarsi i miei peccati come un sfasciacarrozze con le carcasse di vecchie auto abbandonate.

Così mi sentivo, come una vecchia e impolverata panda dimenticata dal mondo.

Più parlavo e biascicavo sui miei peccati e più il prete imponeva le mani sulla mia fronte. In piedi mi ruggiva di lasciarmi perdonare. Di seguire la luce. Di fottermene delle miriadi di cazzate che avevano finora distrutto questa vita perfetta. Mentre me ne sbattevo ed accoglievo il candore lo abbracciai. Sì, allora chiesi scusa e in coro mi sentii abbracciato.

Is it something I said when I lost my mind?
My temper too quick, makes me blind

Ne uscii, oh sì e puro e bianco e candido. Uscii sorridendo al mondo come dopo una bella scopata.
Pensai – mi sono proprio guadagnato un bell’aperitivo-. E no, non ero cambiato per nulla.

In soffuso, nell’etere:

Said I’m sorry, I
Said I’m sorry, I
Said I’m sorry
Now it’s your turn, can you look me in the eyes
And apologize?
(How ’bout it?)