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[Novel] Il rock non muore, io sì – Episodio 4

Quarto episodio

Voglio una band

Voglio una band. Ma dove la trovo io una band in questo inferno maledetto? Eppure senza una band i miei sogni di gloria sono destinati a esaurirsi nelle solitarie esibizioni casalinghe interrotte da vicini senz’anima. Certo, fare pratica è necessario, anche se una volta imparato a suonare con i power chords, ovvero i bicordi (anche se poi di corde se ne schiacciano tre), mi sento già pronto per un tour mondiale. Ma, se devo dire la verità, è parecchio triste provare a cambiare il mondo da soli. Perché si è soli sempre: quando si nasce, quando si cresce incompresi perfino da chi ti è più vicino e pretende tu sia diverso da quello che sei veramente, quando si muore, insomma sempre. Almeno nel rock lasciatemi condividere un sogno. Lasciatemi formare la mia famiglia, una famiglia che sia uguale a me.

Non so proprio da dove incominciare. E quindi non comincio proprio. Le cose vanno da sé quando devono andare. E così scopro che un mio compagno di classe, Luis, uno dei pochi con cui ho rapporti, sta imparando pure lui a suonare la chitarra. Non ci penso due volte e lo invito in mansarda a suonare con me. La nostra amicizia si fortifica mano a mano che i nostri desideri convergono nell’idea di un nuovo progetto musicale, con canzoni scritte da noi, in cui poterci finalmente esprimere senza filtri. Una febbre mi invade, è la passione creativa. Mi sento posseduto da qualcosa molto più grande di me. Inizio a cantare. Scopro di avere una voce, la mia voce. Quando Luis mi sente cantare per la prima volta rimane di pietra: “Cazzo, sei bravo!”. “Davvero?” rispondo io paonazzo e con il cuore a mille. “Io sono stonato come una campana”. “Beh, sai, non avevo mai provato a cantare fino all’altro giorno…”. È così. Io cantante? Fino a qualche mese fa per me i cantanti erano esseri sovrumani prescelti da dio in persona, degli eletti bastardi e degni di tutta la mia invidia. Michael Jackson – idolo di famiglia (più che altro dei miei fratelli) – era per me un cantante, il cantante. E io, figlio di chi ero figlio, non avrei mai potuto nemmeno immaginare di emettere una sola nota con le ridicole corde vocali datemi in sorte. Eppure, il miracolo. Altro che Lourdes. Il rock mi ha liberato da tutte le catene. Io, timido patologico e ipersensibile, sono ora pronto a metterci la faccia, e soprattutto la voce. Non voglio dire che chiunque possa fare rock – voglio credere anch’io di essere stato prescelto da Dioniso –, ma solo che il rock mi ha salvato la vita in un momento in cui la vita mi faceva davvero schifo. Non che ora abbia smesso di fare schifo, ma perlomeno, come diceva qualcuno, posso ballarci sopra.

È l’ultimo mese dell’anno e il freddo umido della pianura comincia come sempre a spaccarmi le mani. Passeggio con Luis sotto casa sua mentre da lontano vedo arrivare sua sorella in compagnia di un amico. Vuole presentarcelo, si fa chiamare Kem, ha due anni meno di noi e suona la batteria. Dice che sta cercando una band. Cazzo, è fatta, “sei dei nostri”. Non prima però di averci detto che il suo batterista di riferimento è Dave Grohl. È amore a prima vista. La mia famiglia, finalmente, comincia a prendere forma. Ho una band, sebbene ci manchi ancora un bassista, ma Cristo è una sensazione davvero fantastica.

Troviamo una sala prove gratuita in un oratorio dalle ampie vedute. A farci entrare in quel buco è un amico di Kem, ragazzo della nostra età anche lui chitarrista. La condizione è però che entri a far parte della band. Tre chitarre e una batteria? Tant’è, non abbiamo scelta. Ma già dopo la prima prova Vik si rende conto che tra noi non c’è feeling. Meglio così. E intanto, per la gioia dei miei vicini, due pomeriggi a settimana quella sala prove rivestita di cartoni di uova diventerà il mio regno.

Tranquilli, non ho abbandonato la mansarda, i vicini fanno prima a cambiare casa. È qui che passo tutti gli altri pomeriggi, a suonare e comporre. È qui che imparo a sputare l’anima, a conoscere la mia voce. Non avevo mai urlato prima. Non sapevo nemmeno come si facesse. Ora lo so, e urlare suonando una chitarra elettrica è la cosa più fica che possa esistere sulla faccia della terra. Non voglio fare che questo. D’altronde ho quindici anni di urla represse da recuperare. Riempio quaderni di poesie e abbozzi di testi. Porto in sala prove le mie canzoni e Luis e Kem se ne innamorano. Le arrangiamo, le suoniamo, ci immaginiamo su un palco. Le gambe tremano ma i cuori si gonfiano. Non mi ero mai sentito così importante per qualcuno, ma nemmeno per me. Ora invece so che l’universo o qualcosa del genere vuole che metta tutto me stesso in questa band, perché questa band è tutto quello che conta.

di Malatesta