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|Interview| “Projections on a Human screen”: HÅN si racconta

 

 HÅN pubblica il suo primo album edito per Sony Music Italy, “Projections on a Human Screen”, che racconta l’anima di una delle artiste emergenti più promettenti del panorama musicale italiano.

Dopo i suoi EP di debutto, The Children e Gradients, HÅN, ovvero Giulia, classe ‘96, torna con un progetto che racconta pienamente la sua cifra stilistica e la sua visione artistica.

“Projections on a human screen” è un progetto complesso e completo, pur essendo un mini-album, e ascoltandolo riusciamo ad immaginarcelo facilmente suonato live su un palco di un festival internazionale, magari Nord Europeo.

HÅN canta in inglese (per istinto, non per scelta, come ci racconta), scrive di sé stessa in maniera delicata ed elegante, com’è elegante anche la sua voce, che utilizza sapientemente. Ed effettivamente la sua voce è uno strumento raro: il risultato del suo timbro e delle sue melodie sulle strumentali spesso sperimentali è pop, ma ricorda atmosfere nordiche e quasi mitologiche che creano un connubio che non è facile trovare altrove, né in Italia né all’estero.

Nonostante la complessità, che non è ricercata ma è il risultato dell’unicità della sua musica, HÅN riesce a colpire già al primo ascolto.

Il merito forse è proprio di questa complessità artistica innata che però si coniuga con una intenzione musicale intima ed estremamente personale. Ascoltare HÅN significa riconoscersi nelle parole e sentirle proprie, ma anche rimanere sbalorditi per uno cambio melodico inaspettato.

Proprio per questo, abbiamo voluto parlare con lei e sentirla raccontare meglio sé stessa e la sua musica, che non riusciremo a toglierci facilmente dalla testa.

Ciao Han! È uscito “Projections on a human screen”, il tuo primo album. Come stai vivendo questi giorni post-uscita?

Ciao! Sono felice che finalmente sia successo. Faccio fatica a vivere il presente quindi sono sempre proiettata sui passi successivi, però sto cercando di godermi l’uscita e perlomeno metabolizzare che sia uscito un album. Abbiamo fatto la prima data, a Milano, ed è stato bello ritornare a suonare davanti a delle persone reali. Penso che i live siano lo strumento migliore per realizzare ciò che si sta facendo.

Una domanda banale: come mai la scelta di scrivere in inglese? È secondo te un valore aggiunto per emergere nel panorama musicale italiano, o scrivere in lingua inglese è più penalizzante?

Tra le due penso sia sicuramente penalizzante, però non è stata una scelta. Semplicemente è scaturito naturalmente dai miei ascolti e dalle mie abitudini.

Non mi sono mai sentita particolarmente legata alle mie origini italiane, mi è sempre piaciuto guardare ad altro. Non per “spocchiosità” , ero semplicemente affascinata da ciò che non avevo intorno.

Ora che sono adulta invece sento di starmici avvicinando di più, anche per questo sto iniziando a scrivere in italiano ultimamente e ad esplorare la cultura musicale italiana.

L’album nasce negli ultimi due anni, vissuti tra Londra e Milano. Cosa ti hanno dato queste due città artisticamente e personalmente?

Milano la sto ancora scoprendo. Da quello che ho vissuto finora è un posto che sembra non fermarsi mai, dovunque ti giri sta succedendo qualcosa. Un po’ mi mette a disagio questa frenesia e un po’ mi affascina, non ho ancora capito da che lato sto. Però è bello essere in un posto dove si ha tanta scelta in ogni ambito, una cosa che mi mancava a casa mia. Londra è simile in questo, ma (per la mia breve esperienza) l’ho percepita più libera rispetto a Milano, nel senso che questa frenesia veniva vissuta da me con curiosità e mai con pressione.

Quando un album viene pubblicato, solitamente la storia che racconta si è già conclusa, è stata già metabolizzata da chi lo ha creato. “Projections on a human screen” è nato due anni fa ed è arrivato a noi oggi, nella sua forma più completa. Quante cose sono cambiate dalla prima nota di questo lavoro ad oggi?

Sono cambiate molte cose, prima di tutto io. Le canzoni le sento ancora abbastanza vicino a livello di temi, mentre a livello di sonorità, anche se continuano a rappresentarmi, penso che risultino già indietro rispetto a ciò che sto facendo e ascoltando adesso.

In generale, sto cercando sempre di più la sincerità in quello che faccio.

Quindi di conseguenza cerco di eliminare tutto ciò che è pura estetica musicale per favorire la comunicazione di qualcosa di vero per me.

Ho sempre pensato che la tua musica, dalla voce al testo, dalle melodie al mood, fosse estremamente elegante e raffinata. Questa stessa sensazione la percepisco quando guardo le copertine dei tuoi lavori, grafiche e artwork. Come funziona il lavoro grafico e visivo del tuo progetto?

Sì, sono molto attenta all’aspetto visivo del progetto che per me vale esattamente quanto la parte musicale. È importante per esprimersi e per comunicare il tuo messaggio, che nel mio caso è la mia identità. Per questo sono sempre in prima linea sulla direzione artistica di foto, grafiche, video o artwork che siano. Molte volte mi scontro con le possibilità di budget e devo ridimensionare le idee, ma sono felice del lavoro che è stato fatto finora sull’album perché penso rispecchi davvero ciò chè è HÅN ora.

Nella pratica, ogni volta che bisogna preparare del materiale visivo, creo una moodboard è un concetto  che si leghi ad essa, e poi si procede lavorando con altre persone, cercando di raggiungere il risultato più simile all’idea iniziale.

È il tuo primo album ma alle spalle hai un’esperienza ben solida di live e festival e ci hai già svelato due prossime date a Milano e a Roma. Ci racconti qualcosa (assolutamente spoiler-free) di ciò che ci aspetta sotto il tuo palco?

Abbiamo creato dei visual “narrativi” per ogni traccia, dove le lyrics compaiono sopra le immagini come se li stessi scrivendo a computer al momento. Ogni visual rappresenta il pezzo in questione, quindi le immagini non sono casuali ma riprendono i temi o l’immaginario del pezzo. Con questo volevo dare l’idea di “diario” e come dicevo prima, creare un’esperienza anche visiva. Un mio sogno sarebbe portare un letto sul palco per ricreare la mia camera (dove è stato scritto l’album), però non so se è fattibile al momento.

Qual’è la tua esperienza da artista emergente donna in un’industria complessa come quella musicale?

Fortunatamente non ho mai sperimentato trattamenti particolari dovuti al mio genere. La parte complessa che ho incontrato è più legata alla vendibilità e al mio stile musicale, che magari non soddisfa pienamente i canoni e mi esclude da certe dinamiche.

Generalmente, penso che si possano ottenere le cose che si meritano se si lavora al massimo ad una propria visione. Farei davvero fatica a scendere a compromessi ma penso anche, forse illusoriamente, che pochi si sentano spinti a farlo oggi.

La musica ora mi sembra piuttosto libera e deve restare così, altrimenti per me zero senso farla.

Ultima domanda: un film che associ al tuo album e un libro che consiglieresti di leggere con “projections on a human screen” in play.

Film: Alice in Wonderland (il cartone del 1951), libro: Lunch poems, Frank O’Hara.

di Elisabetta Picariello

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