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|Interview| Mòn, da Zama a Guadalupe partiti da un faro norvegese

È da un paio d’anni ormai che i Mòn  sono emersi dal caotico groviglio delle scene musicali romane.

Presto hanno calcato i palchi dello stivale nel corso dei tour per l’uscita dei due album, Zama e Guadalupe – rispettivamente rilasciati nel 2017 e nel 2019 – guadagnandosi un po’ di notorietà grazie a un buon numero di concerti e a un progetto che – soggettivi gusti a parte – si avvale di qualità e ricerca.

Ascoltare per credere. Proprio in questo momento, a circa un mese di distanza dall’uscita di Guadalupe, i Mòn sono impegnati in una serie di date.

Contatto Stefano Veloci, il bassista (tra l’altro ex-Moblon, che erano interessanti), che ci concede uno scambio virtuale.

Stefano non solo ci parlerà dei Mòn, ma anche dell’ambiente in cui si sono mossi e si muovono, di come rispecchia una determinata attitudine musicale e di altri gruppi che condividono lo stesso approccio.

Si augura che queste informazioni siano spunto per fare nuove conoscenze e per la tessitura di fiorenti reti di contatti.

G: Ciao Stefano. Due brevi parole su di voi per chi ancora non vi conosce. Partiamo dalle origini: come e quando è nato il progetto Mòn? Quali backgrounds si sono mescolati?

S: È nato nel 2014 dopo lo scioglimento di un progetto folk dove per la prima volta ci siamo trovati a suonare insieme. Non abbiamo più smesso.

Possiamo dire che ufficialmente siamo nati qualche mese dopo quando è entrata nel gruppo anche Carlotta (voce).

Abbiamo età e backgrounds un po’ diversi in effetti, che variano dalla scena punk hardcore al conservatorio, passando per fari norvegesi; tutto questo ben cesellato penso si possa ritrovare in quello che suoniamo e scriviamo.

G: Fari norvegesi?

S: Si, la leggenda vuole che Rocco (voce, synth, chitarra) sia cambiato e abbia trovato l’illuminazione e la malinconia che lo contraddistingue costruendo un caminetto per qualche mese in un faro in Norvegia.

G: Quest’immagine in effetti calza da paura con alcune atmosfere evocate dal vostro sound – forse soprattutto quello di Zama – ma si sente anche molto altro.

Siete in cinque, ognun con il suo stile… alla luce di questo e rispetto alla sperimentazione – che a mio avviso in Guadalupe è palese – ve la sentireste di definirvi in un genere? Orientativamente…

S: Sicuramente in Zama ci sono più riferimenti nordici sia musicalmente che nelle liriche; essendo noi così diversi quando si trovava un punto in comune ce lo tenevamo ben stretto, e in quel periodo ci sentivamo musicalmente molto vicini al nord europa e alle atmosfere un po’ math un po’ fredde tipiche dell’indie rock e della folktronica.

In Guadalupe è stato un po’ diverso, ci sono di rado dei riferimenti precisi ma al più delle atmosfere rubate ai generi più disparati. Quindi se dovessi dirti un genere per Zama ti direi indie rock, per Guadalupe invece ti direi che non lo so e che per noi è un traguardo.

G: Buonissimo. Parliamo un po’ dell’ambiente in cui vi siete buttati. Come vi siete fatti conoscere?

Quali sono stati i primi posti in cui vi siete esibiti? Avete partecipato a delle iniziative particolari? Avete contribuito in qualche modo alla loro organizzazione?

S: Abbiamo suonato in giro il più possibile, fin dal principio, da quando avevamo si e no quattro pezzi quasi pronti; inizialmente gestendocela da soli, poi piano piano si è venuta a creare una squadra più ampia con l’Eretico Booking  e Urtovox  , che hanno migliorato il tutto, riuscendo in questi anni a farci suonare in molti bei festival (Pas de Trai , Tangram , NIMSoundProof  etc… ) e locali.

All’inizio ci siamo organizzati qualche data a Roma da soli, ora meno, anche se l’anno scorso abbiamo partecipato come ospiti segreti dell’ultimo secondo all’Inquerciata  che è un festival multiculturale con base a roma della cui organizzazione fanno parte alcuni di noi.

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G: Mi hai citato tanta roba… e dimmi un po’, in base alle vostre esperienze e percezioni – anche nate dal confronto con altri gruppi – quanto queste iniziative nell’effettivo sono state capaci di creare possibilità?

In che misura rispetto alla pubblicità su piattaforme digitali o alla mediazione di labels e promoters?

S: Sono state fondamentali per il crearsi di rapporti diretti con il pubblico e con gli addetti ai lavori, chiaramente a Roma più che altrove, essendo la nostra città.

Diciamo che il marketing è utile per creare una base, per aprire delle porte altrimenti chiuse, che poi però vanno attraversate. Affinché i legami si consolidino la presenza dal vivo è fondamentale.

G: E non è scontato. In queste dinamiche avete avuto modo di capire prima di tutto se si può definire una “scena musicale romana” concreta, cioè che non si limiti a essere un miscuglio d’interessi limitati a una serata sia da parte dei gruppi che dei locali? Se sì, dove e come è canalizzata secondo voi?

S: Probabilmente ce ne sono diverse di scene romane, quella a cui noi sentiamo di appartenere di più è composta da gruppi dai generi più disparati che sono accomunati principalmente da un’attudine, un bisogno di ricercare e di sperimentare sonorità e di creare una musica che risulti unica e personale e che prescinda quindi dai generi; alcuni nomi: Juggernaut , Inesatto , Oribu, Dumbo Station , RBSN , Germanotta Youth … I locali spesso scelgono i gruppi per associazione di genere musicale, quindi è raro finire a suonare insieme a questi altri progetti, esistono però realtà e festival ma anche locali, a cui non interessa questo limite.

G: Buonissimo, davvero… prossime date?

S: Le prossime date sono stasera a Firenze (ormai ieri), poi dal 13 al 16 marzo a Rende, Messina, Palermo e Catania. Torneremo al nord dal 22 al 23 a Livorno e Seregno per finire il 30 marzo al Monk a Roma.

G: E allora ci si vede presto. Grazie mille Stefano. Saluta tutti e spaccate.

S: Grazie! Ciao!

di G. Igafo