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|Live Report| Storia di un Impiegato, l’Opera rock di Cristiano De André – Auditorium Parco della Musica (Roma)

In questo periodo è difficile contare tutte le commemorazioni e i tributi a Fabrizio De André.

L’11 gennaio 2019 è stato, infatti, il ventesimo anniversario della sua morte: nel 1999 Faber lasciava questo mondo e con la sua dipartita ha lasciato un grande vuoto artistico, quasi incolmabile.

E se vi siete detti

Non sta succedendo niente

Le fabbriche riapriranno

Arresteranno qualche studente

Convinti che fosse un gioco

A cui avremmo giocato poco

Provate pure a credevi assolti

Siete lo stesso coinvolti”

Ma chi tra i tanti poeti, cantautori e artisti di vario genere può commemorare e portare avanti l’eredità di De André se non un altro De André?  

Forse Cristiano avrebbe voluto una vita diversa, senza il peso che portano sulle spalle – nel bene o nel male – tutti i figli d’arte.

Ma lui ha dimostrato e continua a dimostrare di essere all’altezza del ruolo, delle aspettative del pubblico e, soprattutto, è l’unico che è riuscito a reinterpretare e a far rivivere la vera essenza del cantautore genovese.

Ma andiamo con ordine e torniamo indietro nel tempo, al Sessantotto e ai tempi di un concept album, il sesto disco di inediti Di Fabrizio De André: Storia di un Impiegato.

La Treccani definisce i Sessantotto come “il movimento di studenti e operai che esplose alla fine degli anni Sessanta del Novecento nelle università, nelle scuole, nelle fabbriche e nelle piazze, contestando i valori tradizionali e le istituzioni.

Tale contestazione prese di mira sia la società occidentale – e dunque il capitalismo – sia quella di tipo sovietico – e dunque il socialismo nella sua realizzazione storica.”

Cinquant’anni dopo quella stagione che cambiò il mondo Cristiano De André non ha voluto solo omaggiare un disco del padre ma, reinterpretandolo e riarrangiandolo completamente, ha costruito una vera e propria opera rock.

Grazie al “romanzo” che passa per i nove “capitoli” di Storia di un Impiegato Cristiano riporta in auge i figli della rivoluzione pacifista: l’utopia, l’anarchia, il Sogno, da una parte, il Potere, la paura, l’inabissamento delle qualità individuali a discapito delle esigenze globali, dall’altra.

Dal vivo lo show rende molto e ti tiene incollato dall’inizio alla fine dello spettacolo  grazie al ritmo serrato di un sound elettro rock calibrato sui momenti psicologici del protagonista della storia (‘Storia di un impiegato’ racconta infatti il gesto di un impiegato degli anni ’70, animato dal ricordo della rivolta collettiva del Maggio francese del 1968), dall’iniziale clima di sfida dettato dall’introduzione sui giorni del Maggio francese sino al fallito attentato e al carcere.

Musicalmente Cristiano spazia dal folk rock al prog, fino a toccare il punk in una versione veramente originale (nel bis) de Il Pescatore.

Eh sì, perché Cristiano infila sapientemente anche altri classici del repertorio deandreiano che toccano comunque i temi dei diritti e della lotta alle ingiustizie come Fiume Sand Creek e Don Raffaè.

Accompagnato da immagini di repertorio degli anni di piombo, ma anche di altre battaglie e rivoluzioni, grazie alla regia impeccabile di Roberta Lena, lo show vince e convince.

La prova è la sala Santa Cecilia dell’Auditorium: circa 3000 persone che a fine spettacolo si alzano in standing ovation e costringono il cantautore a tornare sul palco per ben 2 volte.

Questo show non rappresenta solo una opera rock finemente costruita ma è anche il simbolo di un’Italia che non si arrende e che, attraverso il ricordo di un disco e di una stagione che ha cambiato i giovani di allora, prova a risvegliare le coscienze dei giovani di adesso.

L’impresa di Cristiano, inoltre, è magistralmente raccontata in un libro (ed. Arcana) di Alfredo Fracchini e Ottavia Pojiani Bettoni “Questi sogni che non fanno svegliare. Storia di un Impiegato. Opera rock di Cristiano De André.”

135 pagine da leggere soprattutto per chi, come me nato ad inizio anni Ottanta, vuole capire meglio lo spirito di quegli anni. E perché in Italia nel 2019, oggi come ieri dunque, nessuno si deve sentire immune. Chi più e chi meno, anche se ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti.

di Damiano Sabuzi Giuliani