Live Report

|Live Report| La neozelandese Aldous Harding ospite al Locomotiv Club

Il 15 Novembre la rassegna Murato ha ospitato al Locomotiv Club l’unica data italiana della cantautrice neozelandese Hannah Sian Topp, in arte Aldous Harding.

Ad attenderla un locale pieno ad un passo dal sold out, che inizia ad immaginarla con l’indie pop – con sottofondo di canto di uccellini – di Yves Jarvis e nella pausa in mezzo musichette da colonna sonora di cartoni animati.

Non casuali, rilassanti ed allo stesso tempo disturbanti della quiete interiore, questi suoni “preparatori” fanno aumentare l’appetito musicale.

Ma quanto è faticoso raccontare di questo concerto.

Lo è perché dal primo momento in cui Hannah si presenta sul palco dona emozioni che scuotono dentro, la cui semplice descrizione a parole può non essere sufficiente a rendere l’idea.

A. sale sul palco in solitaria, ci osserva tutti, con gli occhi grandi, sbarrati e scrutatori, con un’intensità ed uno sguardo che raramente ho visto e sentito sulla pelle.

 

In un silenzio agghiacciante, mentre si siede sullo sgabello ed accorda la chitarra riesce in un solo minuto a trasmettere e sintetizzare quale sarà lo spirito del live.

Sospira più volte, produce dei versi strani con la bocca e parte, con occhi rivolti al cielo cantando The World Is Looking For You dal precedente album Party, quello che l’ha portata ad essere conosciuta.

Esegue un paio di pezzi da sola con la sua chitarra, capotasto ed una voce intensa; poi si alza, sposta tutto, vaga avanti e indietro sul palco come per riflettere, alza il microfono e ci guarda, nuovamente.

Sono in prima fila, per un attimo incrocio il suo sguardo così intensamente che riesco a connettermi con la persona, ancor prima che con l’artista.

Questo momento solenne che sembra duri una vita, viene d’improvviso interrotto quando la band sale sul palco iniziando la festa: è la volta di Fixture Picture e le sue percussioni.

La maggior parte dei pezzi suonati (appena 13 in totale) fa parte del nuovo ed ultimo album Designer, uscito ad inizio del 2019, il più “dinamico” di tutti.

Tra occhiolini, risate buffe e versi da simil cabaret, si alternano The Barrel, Zoo Eye, Treasure.

Particolarmente degno di nota è Damn, eseguito al fianco della tastierista. Circondate dal fumo, e dalle tende teatrali amaranto del Locomotiv, insieme formano un contrasto suggestivo e di classe: una vestita in total black, l’altra in total white, una con la faccia per lo più comica e l’altra concentrata e seria.

Dal punto di vista prettamente musicale, nella parte non cantata il pezzo si riempie con le chitarre e la tromba, suonata dal batterista Gwion Llewelyn. Notevole.

Si prosegue con Elation ed i suoi meravigliosi controcanti alternati “wonderful, wonderful”, poi la ritmata Blend.

Sul finale la folla le dedica una grande standing ovation.

Poi il bis che, come riesco a scorgere verso i suoi piedi dalla mia postazione avanti, da scaletta è previsto di due canzoni ma alla fine si priverà di una delle mie preferite, Imagining My Man.

Dal pubblico arriva un mazzo di rose che sistema orgogliosa davanti a lei, sorridendo. Sorridiamo tutti, le si addicono.

Aldous Harding impugna una bacchetta ed inizia a battere con forza e ritmo su di una tazza con le sue consuete facce coinvolgenti dando il via ad una ultima canzone, presentata come nuova, super accattivante ed allegra.

Sicuramente il modo migliore per chiudere un’ora e dieci di concerto, piuttosto breve ma molto intenso. Lascia un macigno nel cuore e ci va bene così.

I due sostantivi caratterizzanti della serata sono “silenzio” e “purezza”, di cui sono una grande fan.

Probabilmente avremmo tutti più bisogno di queste medicine speciali: sono necessarie per non perderci.

Mi piacerebbe che Aldous Harding fosse mia amica almeno per una sera.

di Giulia Rivezzi