Live Report

|Live Report| Il rock non è morto, i Pixies live al Paladozza

È venerdì 12 ottobre ed il Paladozza di Bologna ospita un evento unico ed un sold out annunciato da un pò di settimane: quello dei Pixies che tornano in tour in occiasione del loro settimo album in studio Beneath the Eyrie.

Opening act i Blood Red Shoes, duo inglese indie rock del nuovo millennio. Steven Ansell e Laura-Mary Carter hanno l’onore di aprire agli headliner, che dichiarano essere uno dei loro riferimenti ed ispirazioni musicali più importanti.

Si alternano alla voce, scaldano il pubblico a suon di ‘plettrate’ e colpi di batteria sostenuti ed incisivi; a tratti diventano psichedelici, anche per effetto di una luce bassa laterale che lampeggia attraversando i loro volti.

Sposto un attimo lo sguardo e noto che il mio vicino di posto sta misurando le frequenze del suono con un’app al cellulare. Sorride: i decibel sono già molto alti. Sul finale l’amplificatore fischia e Steven sale sulla batteria, lasciandoci abbastanza soddisfatti e con l’ansia da attesa.

Dopo qualche minuto sono le 21.18, si spengono le luci, si sente una ‘schitarrata’, la band suona un intro per circa un minuto nella totale oscurità, generando sensazioni contrastanti e suspence.

È l’incipit di un concerto che posso annoverare tra i più emozionanti tra quelli finora visti nel 2019.

La presenza delle chitarre è fortissima sin dall’inizio ed il pogo delle prime file parte già al secondo pezzo durante Break My Body, durante cui Black Francis sfoggia la sua voce graffiante e trascina la nostra mente coi riff alla chitarra.

Qualche pezzo dopo ecco Bone Machine, rigorosamente a due voci con la super Paz Lenchantin, bassista e seconda voce del gruppo che sostituisce in maniera egregia Kim Deal, uscita dalla band nel 2013.

Rifletto sul fatto che l’elemento femminile su un palco mi affascina e mi rapisce sempre, rendendomi maggiormente attenta e connessa agli sviluppi musicali del concerto.

Il 2019 è un anno un po’ particolare per la super band: da un lato festeggia i 30 anni di Doolittle, dall’altro presenta il nuovo disco, uscito a settembre.

Ed infatti, la presenza di questi due principali filoni caratterizzerà la maggior parte del live.

Diversi sono i pezzi nuovi che rendono la folla abbastanza impreparata e piuttosto ammutolita, come In the Arms of Mrs. Mark of Cain, che apre l’ultimo album, Beneath the Eyrie, con una melodia accattivante ed introduce dei suoni ed un modo diverso di cantare, quasi più cupi.

E poi la più calma e romantica Ready for love o anche la più ritmata Silver Bullet.

L’impressione è che lo stacco tra il presente ed il passato sia quasi difficile da assimilare, anche per i fan più accaniti.

Doolittle, d’altra parte è suonato quasi per intero: a partire dalla mitica Hey, suonata già subito nella prima mezz’ora, continuando con Monkey gone to heaven con strofe quasi parlate e recitate, passando per Wave of mutilation e poi l’immancabile Here comes your man, tripudio di anche che si muovono a ritmo con la chitarra anni sessanta.

Un pezzo di storia del rock anni ’90 scorre davanti ai nostri occhi e ci fa commuovere, sorridere e porta tanta nostalgia.

Il pogo è costante durante tutto il live e ad un certo punto si nota un accenno di stagediving; avrei voglia di tuffarmi giù dalla gradinata per far parte della bolgia, che però, ammetto che da su è uno spettacolo aggiuntivo ed un gran bel vedere.

Poi, nel bel mezzo dello show e senza alcun cenno di preavviso, “Stop!”, ecco l’ iconica Where Is My Mind.

“Fidati, andrà tutto bene” (…) “Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita”.

Da vent’anni nella scena finale romantica ed apocalittica di Fight club, gettonata nelle radio, presente in chiusura di svariati djset, lì suonata davanti ai nostri occhi e a presa diretta nelle nostre orecchie, fa grande effetto.

Black la canta a modo suo, con una voce sporca, non curante degli schemi, quasi per distinguersi dalla massa che la urla: è inevitabilmente uno dei momenti più emozionanti della serata.

Tutto si chiuderà con Debaser, leggermente velocizzata ed incattivita, più rock che mai, più sporca che mai: il finale perfetto, col sudore che scende da qualsiasi angolo del corpo.

Quasi 40 canzoni, due ore di musica senza sosta, senza presentazioni né parole accessorie, senza bis né frottole varie. Lo stile dei Pixies rimane unico, invecchia nei loro e nei nostri volti e ci piace così.

Ed è la dimostrazione che il vero amore, soprattutto se curato nel suo esistere, resiste nel tempo, non necessita di retorica ma di vivere di concretezza.

Il rock non è ancora morto, alleluia.

di Giulia Rivezzi