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[Novel] Il rock non muore, io sì – Episodio 2

Secondo episodio

Precipito

Precipito. Quella che tutti vedono in me come mediocre abulia non è altro che incapacità di capire come mi sento. Sono incazzato e non so perché. E più vedo i miei coetanei accomodarsi come grassi dèi sulle poltrone della vita più mi incazzo. È un momento, dai, ripetono gli adulti. A quindici anni tutti ce l’hanno col mondo. Veramente non mi sembra, boh, sarò un egoista, ma che ci posso fare? I miei genitori non capiscono: ti abbiamo dato tutto, figliolo, perché fai i capricci? E, ancora una volta, più la logica mortifera dell’apparenza sancisce la mia serenità mentale, più io sprofondo in un mare di angoscia senza nome.

È il miglior amico di mio fratello grande, Lory, a prestarmi la sua chitarra classica. Fino a qualche anno fa cantava in una band, poi però era finita lì, come se non fosse mai esistita. A Lory voglio bene come a un fratello, ha più di dieci anni più di me ma sembra l’unico che mi capisce, o perlomeno che prova a farlo. Appena ha saputo che volevo imparare a suonare si è proposto di aiutarmi. Così inizio a prendere lezioni da un chitarrista fallito che quando mi vede arrivate in bicicletta sotto casa sua mi chiede sempre di andargli a comprare una Coca-Cola, che poi mi avrebbe ridato i soldi. Gli dico che voglio imparare a suonare Battisti. Ma prima devo ovviamente imparare a mettere le mani su quella chitarra, femmina maestosa e inarrivabile.

Passo i pomeriggi dopo scuola chiuso in camera a esercitarmi, tagliandomi le dita su corde di nylon per ore e ore. La mia testa è vuota, c’è solo la chitarra a riempirne gli spazi. Dopo poche settimane so finalmente mettere insieme tre o quattro accordi e sono felice. O meglio, è quello che mi sarei aspettato, in realtà non sono affatto felice; soddisfatto di essere riuscito a espugnare La canzone del sole, quello sì, ma dentro di me continua a gorgogliare qualcosa di misterioso. Mi rendo conto di non avere una direzione, di non sapere dove andare. Suonare quegli accordi mi fa stare bene, ma non basta. Ho bisogno di qualcosa che mi faccia perdere la testa, come una fede, un ideale, una sbronza colossale – io che al pub ho iniziato a bere sangria come un pirata gitano in vacanza.

La verità vive nei brividi. E l’avrei presto scoperto sulla mia pelle. Il primo brivido arrivò una sera di febbraio mentre guardavo coi miei genitori Sanremo, più di un anno prima di prendere in mano la chitarra: i superospiti della serata erano i Placebo e il cantante Brian Molko a fine esibizione, oltre a insultare il pubblico, sfasciò la sua chitarra sugli amplificatori. Non capivo. A me i Placebo piacevano, mi piaceva più o meno tutto quello che all’epoca passavano le reti televisive musicali. Ma perché spaccare tutto? Non avevo mai visto niente di simile, non sapevo niente della vita. Non lo davo a vedere ma ero sconvolto, avrei voluto piangere. Sentivo tutta la rabbia di quell’atto fluire dentro di me a tal punto che avrei voluto abbracciare la televisione. Ma invece stetti fermo immobile ad ascoltare il biasimo unanime uscire dalle bocche di tutti. Repressi dentro di me quell’emozione, per mesi, non sapendo che avrebbe continuato ad alimentarsi delle mie inadeguatezze quotidiane.

Ma ora tutto sta precipitando, ma per davvero. Da quando ho preso in mano la chitarra so per certo che mi smaschererà, che in un modo o nell’altro, nonostante tutta la paura, riuscirà a tirar fuori la mia anima nera. Il mio cuore è segnato, è sul punto di esplodere. È l’ottobre del 2002. Sono in camera a guardare programmi musicali. Parte il video di You Know You’re Right dei Nirvana. È finita. La mia vita non sarà mai più la stessa. Eccolo lì, il brivido dei brividi, quello che stavo aspettando, il varco per un’altra dimensione: il rock. La stessa sensazione che provai guardando Sanremo, ma mille volte più intensa. Una scarica di adrenalina mi percorre il corpo. Guardo Kurt Cobain sfasciare la chitarra contro muri di amplificatori, ascolto la sua voce rauca, il lamento di un animale ferito, e mi innamoro perdutamente del dolore spalmato sulle distorsioni di una chitarra elettrica sorrette da tamburi assordanti. Anch’io voglio urlare. Anch’io voglio spaccare tutto. Non saranno neanche due mesi che ho una chitarra, per altro in prestito, ma ora mi è definitivamente tutto chiaro. Io sono quella roba lì, per quanto non sia normale, per quanto chi mi conosce non riesca a crederci, per quanto nessuno nella mia famiglia o fra i miei amici possa capire i miei brividi. Ma forse è proprio quello che stavo cercando.

  di Malatesta