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[Novel] Il rock non muore, io sì – Episodio 6

Sesto episodio

Niente è uguale da quassù

 

Niente è uguale da quassù. Il giorno tanto atteso è arrivato, sono sul primo palco della mia vita. Ho detto ai miei che quella sera avrei fatto tardi e di togliere la chiave dalla serratura. Ho la gola secca e le braccia tremule, i miei due compari sembrano molto più tranquilli di me, ma è chiaro: faccia e voce ce le metto io. E siamo ancora solo al soundcheck, anche se nella palestra dell’oratorio illuminata al neon ci sono già due signore attempate che conversano sedute su una panca di legno: “Giovanotti, il volume non sarà un po’ troppo alto?”, dice una delle due rivolgendosi al povero fonico, “non riusciamo neanche a parlare”. Ma dico io, che cazzo volete dalla mia vita! Per questa non è una serata come le altre, è il mio primo cazzo di concerto! Ma non dico nulla di tutto questo, limitandomi a guardare negli occhi il fonico e cercando disperatamente di scovare nella sua espressione qualsiasi cosa possa significare “fottitene, sono solo due vecchie”.

Dopo la cena a base di pane e salamelle è finalmente l’ora dei concerti. Naturalmente siamo noi il gruppo spalla.

Saliamo sul palco e la prima cosa che mi viene in mente da dire è: “Ciao a tutti, noi siamo un gruppo jazz”, per poi sparare in faccia al pubblico ottuagenario un riff micidiale che ha di certo avvicinato all’ora fatale molti dei presenti.

Urlo per cinque canzoni di fila, a parte quando è il momento di cantare la nostra ballata rock, immancabile momento di decompressione di qualsiasi concerto che si rispetti. Facciamo pure una cover per allungare il brodo, un pezzo di soli due accordi dei The Vaselines, Molly’s Lips, che avevo scoperto grazie a un b-side dei Nirvana. Io le canzoni degli altri non le so suonare, confrontarmi così spudoratamente con le emozioni altrui mi fa sentire in imbarazzo, come se non stessi suonando perché lo sento ma perché devo intrattenere qualcuno. Perlomeno quelli sono solo due accordi, è per di più una cover di una cover, le parole sono facili e più che una canzone sembra una cantilena punk che ha il solo obiettivo di prenderti per il culo. E questa cosa mi piace. Non so però se piaccia al pubblico.

Sinceramente, ciò che provo quando scendo dal palco è un acre sentimento di vergogna. La gente mi guarda un po’ stupita e un po’ impaurita e io vorrei solo andarmene a casa.

Ma per che cazzo ho accettato di suonare davanti al pubblico dell’oratorio senza un bassista e con così poche prove alle spalle? Forse mi sono sopravvalutato. Luis e Kem sembrano abbastanza soddisfatti, ma senza troppa convinzione. Il loro l’hanno fatto. Io penso sempre più intensamente che abbiamo fatto cagare, perlomeno io. Vorrei chiedere loro cosa ne pensano della mia performance, ma non voglio sentirmi dire quello che temo. Mi siedo in silenzio su una panca laterale facendo finta di interessarmi all’altra band che di lì a pochi minuti avrebbe iniziato a fare cover orecchiabili per ripulire quella sensazione di sporco e malato che avevano rilasciato nell’aria le mie canzoni, nelle quali lamentavo qualche serio problema di nervosismo, depressione e rabbia repressa. Nessuno osa avvicinarmi nemmeno per esprimermi biasimo. Di fianco a me c’è un mio compagno di classe, Rino, amico e compagno di banco di Luis. Lo guardo di sfuggita e noto che ha le lacrime agli occhi. Ecco, ci mancava solo questo: ma veramente facciamo così schifo? In realtà non sta piangendo per questo. Si era emozionato durante il concerto. L’ho capito la mattina dopo, quando Luis dopo averci parlato mi ha riportato le sue sensazioni. Non immaginava facessimo così sul serio, si aspettava di trovare tre tizi che scimmiottano i loro idoli.

E invece abbiamo delle idee nostre, delle canzoni vere, e in fin dei conti, per avere tra i quattordici e i sedici anni (io li ho compiuti da quattro giorni), spacchiamo di brutto.

Siamo liberi di dire come ci sentiamo dentro, senza paura di sputarlo da un palco, anche se per ora solo dell’oratorio. Ci stima. Qualche giorno dopo decide di prendere lezioni di batteria.

Lo scoramento di quei giorni viene così ridimensionato dalla fiducia di un nostro coetaneo, uno dei pochissimi presenti quella sera per me storica.

Nel bene e nel male la mia vita da quel giorno è cambiata: calcare il palco è come entrare in un’altra dimensione, vedi tutto da un altro punto di vista, pensi quasi che la vita abbia un senso.

Questo perché, anche se non hai il talento di Jimi Hendrix o i malcapitati presenti al tuo concerto avrebbero preferito rimanere a casa sul divano a guardare Gerry Scotti, ti senti finalmente te stesso, per quanto questa cosa possa farti paura. Sento una potenza indescrivibile fra le mani, la possibilità di lasciare un segno su questa terra. Le lacrime di Rino mi hanno battezzato. Ora non ce n’è più per nessuno. Sono pronto a intraprendere la mia personale scalata dell’olimpo del rock’n’roll.

di Malatesta