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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [21]

Schizophrenia is taking me home. Difficile trovare versi più significativi di quelli dei Sonic Youth per descrivere quel colorato frullatore di suoni, influenze e stili rappresentato dagli anni ’80.

Erano gli anni del synth pop, dell’iconografia new romantic, persino del metal da classifica, ma anche un periodo particolarmente florido per lo sviluppo di correnti underground che contribuiranno notevolmente all’affermazione mainstream del rock alternativo.

L’hardcore evoluto degli Hüsker Dü, il college rock dei R.E.M., il Paisley Underground dei Dream Syndicate, il noise degli stessi Sonic Youth: sono soltanto alcune delle ramificazioni alternative determinanti nello sdoganare certe sonorità dal circuito indipendente.

E quasi tutte quelle citate, soprattutto Paisley e noise, dovranno molte delle loro intuizioni a un’autentica istituzione in pieno delirio schizofrenico (e non è un eufemismo): Neil Young.

Schizofrenia che, a dire il vero, ha sempre caratterizzato una carriera in grado, negli anni settanta, di dare alle stampe una lunga serie di album fondamentali (After The Gold Rush, Harvest, Tonight’s The Night e Rust Never Sleeps, giusto per citarne qualcuno), senza dimenticare gli esordi con i Buffalo Springfield o la celebre parentesi accanto a David Crosby, Stephen Stills e Graham Nash. Ma se, all’epoca, la sua indole borderline riusciva a trovare un equilibrio quasi miracoloso oscillando tra sentite ballate country/folk e torrenziali jam elettriche, nel decennio successivo, mentre quelle band da lui ispirate iniziavano a sfornare capolavori su capolavori, Neil Young annaspava cercando disperatamente la giusta strada da seguire.

Un’instabilità anti-commerciale che lo porterà a esplorare territori sempre più insoliti, dagli incroci tra punk e metal di Re-Actor (1981) alla new wave di Trans (1982), passando per il punto più basso della sua fase synth (e probabilmente della sua produzione): Landing On Water (1986), penultimo lavoro con la Geffen, ormai stanca delle bizze del loner canadese, reo di produrre “volontariamente musica non rappresentativa”.

In un quadro simile, non stupisce neppure la separazione dalla sua storica backing band, i Crazy Horse, momentaneamente accantonati dopo le (de)evoluzioni elettroniche di Trans. Ma ne arriveranno altre due, seppur estemporanee: gli Shocking Pinks per lo sghembo rockabilly di Everybody’s Rockin’ e, soprattutto, i co-protagonisti di questa nuova puntata di Warehouse, i Blue Notes, comprendenti però il fido Frank Sampedro e Ralph Molina. Saranno loro ad accompagnarlo nel disco forse più sottovalutato di quel periodo, che nel 1988 sancirà anche il ritorno alla Reprise: This Note’s For You.

Archiviati definitivamente i flirt con le nuove tecnologie, l’album segnò comunque l’ennesimo cambio di stile di un decennio in direzione ostinata e contraria, che incontrava un curioso epilogo in dieci tracce in bilico tra soul, rhythm’n’blues e atmosfere smooth jazz. Eppure, stavolta, è l’ispirazione a essere diversa, forse aiutata dal recupero di sonorità calde e viscerali, ma sempre apparentemente distanti dal background di chi aveva ridefinito il folk elettrico (mai quanto vocoder e suoni sintetici, chiaramente).

Al di là della tendenza a sperimentare generi fin lì oscuri, infatti, l’unico fil rouge col recente passato è rappresentato dalle invettive al vetriolo contro il music business, le derive corporate del pop/rock mainstream e l’american way of life ai tempi del passaggio di consegne tra Reagan e Bush.

Emblematiche, in tal senso, tracce come Ten Men Working, il trascinante blues di Life In The City e gli attacchi non troppo velati a Michael Jackson e Withney Houston (Ain’t singin’ for Pepsi/Ain’t singin’ for Coke/I don’t sing for nobody) nella corrosiva titletrack, premiata per il miglior videoclip dell’anno agli MTV Music Awards, nonostante un certo ostracismo iniziale (a proposito di contraddizioni dello showbiz) .

Sarà questo l’episodio di This Note’s For You più importante per il rilancio della sua carriera, anche agli occhi delle nuove generazioni, ma non il più rilevante.

Malgrado un latente piglio naif, l’album sembra recuperare in parte lo smalto di un tempo soprattutto nei momenti di maggior introspezione, in cui Young dimostra di saper ancora cesellare dolci melodie senza tempo impreziosite dal lavoro di una ricca sezione di ottoni (sax, trombe e tromboni), valore aggiunto di languide ballad dalle sfumature jazzy da annoverare tra le sue composizioni migliori.

Sono questi i principali highlights di un disco certamente incompiuto, forse a tratti anacronistico, ma terribilmente suggestivo, che restituirà al songwriter di Toronto quella linfa vitale offuscata da bizzarri esperimenti diretta emanazione di una personalità in crisi.

Un ritorno alla vita ben immortalato anche dallo splendido live Bluenotes Cafè, registrato durante quel tour di e rimasto inspiegabilmente nei suoi archivi fino al 2015.

Saranno i primi, chiari segnali di una rinascita artistica culminata, l’anno successivo, in Freedom, seguito a ruota da Ragged Glory (1990), lavori che riabiliteranno definitivamente Young consacrandolo padrino del grunge. Perché la schizofrenia, prima o poi, ti riporta a casa. Basta chiedere ai Sonic Youth.

di Francesco Sacco