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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [20]

You gotta lose your mind in Detroit Rock City… Poche città hanno saputo ritagliarsi un ruolo fondamentale nello sviluppo della pop music al pari di Detroit.

Nota ai più come capitale dell’industria automobilistica statunitense, la Motor Town per eccellenza del Michigan, nei decenni, si è rivelata la culla di movimenti e generi che avrebbero segnato in modo indelebile la storia della musica, dalla techno all’alt blues revival dei White Stripes, passando dal massimo esponente del rap bianco, Eminem.

Tutto, però, ebbe inizio negli anni ’60, innanzitutto con la nascita della Motown, l’etichetta fondata da Barry Gordy che lanciò la carriera di autentiche icone soul come Marvin Gaye, Stevie Wonder e Michael Jackson, senza dimenticare l’affermazione di gruppi vocali quali Temptations, Four Tops e Supremes, determinanti anche nell’emancipare la black music dai vincoli di ciò che, all’epoca, era ancora una questione razziale e sessuale.

Se il soul contribuì a far conoscere il nome di Detroit in ambito mainstream, la seconda metà del decennio portò però al proliferare di nuove tendenze underground diametralmente opposte all’airplay e alle sonorità Tamla, vicine semmai alla carica eversiva del rock’n’roll di Chuck Berry e della british invasion (Who, Kinks e Rolling Stones), riletta con furia iconoclasta attraverso la lezione della psichedelia.

Il 1969 vide così l’esordio di due band seminali, soprattutto per quanto riguarda la rivolta no future del ’77: MC5 e Stooges.

Gruppo cardine della scena downtown, gli Stooges, in particolare, in piena utopia hippy, si fecero portavoce di una furiosa rivoluzione musicale in netta contrapposizione con l’ideologia flower power, portando all’eccesso le derive nichiliste dei Velvet Underground e le liturgie psichedeliche dei Doors, per un devastante mix di rock, blues e garage che gettò le basi del punk.

Un ensemble anarchico, grezzo, violento, guidato da quell’animale da palcoscenico che risponde al nome di Iggy Pop, al secolo James Newell Osterberg, leader lascivo e oltraggioso che, tra atti di esibizionismo e autolesionismo estremi, è riuscito a guadagnarsi un posto d’onore tra i grandi frontmen della storia del rock.

Dopo due lavori epocali (l’omonimo debut del ’69, prodotto da John Cale, e i deliri free jazz di Fun House), la band porrà improvvisamente fine alla sua folle corsa, tra conflitti interni alimentati dall’abuso di droghe e divergenze con la casa discografica, l’Elektra, che li scaricherà senza troppi complimenti. Ma durerà poco.

Provvidenziale l’intervento di David Bowie (già responsabile della risurrezione del Lou Reed di Transformer), grande fan e amico di Iggy Pop, deciso a rimettere in piedi la Fun House guidata dall’Iguana sotto l’egida di una scettica Columbia Records.

L’idea era quella di ripetere lo stesso tipo di operazione realizzata con l’ex leader dei Velvet Underground e rendere gli Stooges le nuove stelle del firmamento glam, ma le cose, ovviamente, non andranno come previsto.
Colpa (o merito) della band, affatto disposta ad ammorbidirsi seguendo le istanze glamour e, dunque, a farsi guidare in tutto e per tutto da Bowie, cui spetterà soltanto il missaggio finale.

Assoldato il chitarrista James Williamson, con Scott Asheton alla batteria e il fratello Ron spostato al basso al posto di Dave Alexander, il gruppo tornerà in studio di registrazione a Londra per un nuovo capitolo alquanto controverso, inizialmente snobbato da critica e pubblico ma rivalutato in seguito all’esplosione del punk.

Pubblicato nel 1973 a nome Iggy & The Stooges, Raw Power mostra una band ancora affamata, affatto scalfita dalle modifiche di una line-up apparentemente intoccabile e da quegli eccessi che ne hanno viziato il cammino.

Un cammino ripreso a mille all’ora con un opener che è già una chiara dichiarazione di intenti: introdotta da un riff al napalm e dai primi assoli di Williamson, Search And Destroy è la quintessenza del nichilismo Stooges, il trait d’union ideale con i primi due capolavori e un nuovo manifesto incendiario grondante anarchia e ultraviolenza (I am a world’s forgotten boy/The one who searches and destroys). Si tratta soltanto del primo sciame sismico di un disco che amplia il ruvido vocabolario dei “Marmittoni” di Detroit, ora più vicino alla forma canzone che al caos primordiale di un tempo, ma non per questo meno brutale e depravato.

È il caso della successiva Gimme Danger, morbosa murder ballad ante-litteram in cui il baritono noir di Pop riesce a raggiungere vette drammatiche sorprendenti ottenebrate dal sesso. È forse questo il vero capolavoro dell’album, l’emblema di una maturità stilistica che renderà Raw Power il capitolo più vario di un trittico imprescindibile per buona parte del rock duro a venire.

Sesso ancora al centro dell’esplicita Penetration (inequivocabile sin dal titolo), del blues fatalista di I Need Somebody e delle volgarissime provocazioni proto-punk di Your Pretty Face Is Going To Hell, fin troppo marcia per esser presa realmente sul serio. Sono da rintracciare proprio in questi solchi, al pari di Search And Destroy, i veri germi del punk, infinitamente debitore, per stile e attitudine, nei confronti delle invettive ultrasoniche degli Stooges, sempre più sfacciati nella tiratissima titletrack: un boogie infuocato che in seguito ispirerà i Guns N’Roses di The Spaghetti Incident? e i nostrani Raw Power, tra i grandi protagonisti dell’italian hardcore.

Dopo il grezzo rock’n’roll vicino ai Trashmen di Shake Appeal, spetta al sabba cacofonico di Death Trip il compito di chiudere l’ennesima apologia dell’autodistruzione, stavolta senza ripensamenti di sorta.

Il 9 febbraio del 1974 sarà il turbolento live al Michigan Palace di Detroit a sancire, tra lanci di uova e bottiglie di birra, la fine dell’epopea degli Stooges, almeno fino alla reunion del 2007 con il discreto The Weirdness (con Mike Watt al basso), prodotto da Steve Albini. Ma si tratta di un ritorno, a conti fatti, pressoché ininfluente. Discorso diverso, invece, per la carriera solista di Iggy Pop, avviata nel ’77 sotto il grigio cielo di Berlino. C’entra ancora una volta David Bowie, ma questa è un’altra storia.

di Francesco Sacco