Avete mai sentito gli esperimenti vocali di Yoko Ono?
Il nuovo album dei Black Lips si apre con gli spasmi isterici della moglie del compianto John Lennon, buttati lì in mezzo ad una galoppante marcia rumorista che irrompe dopo l’ouverture noir jazz di Sunday Mourning. Si tratta della prima traccia, Occidental Front, dell’ottavo album dei ragazzacci di Atlanta, Satan’s Graffiti or God’s art? (un nome un programma), prodotto infatti da Sean Lennon, figlio della leggendaria coppia, che subentra ad altri nomi di serie A: Patrick Carney dei Black Keys nel precedente album del 2014 Underneath the Rainbow e Mark Ronson in Arabia Mountain del 2011.
E a dire la verità ci sono spunti interessanti. Tuttavia sarò spudoratamente di parte. A mio parere lo sono sempre stati: interessanti, freschi, divertenti, anche se sciatti e spettinati, sbronzi e sfacciati come adolescenti sfatti di birra. Family tree, Modern art, Go out and get it, Drugs, Starting over, O Katrina, Cold hands, Hippie Hippie hoorah, sono alcuni dei loro pezzi migliori.
Mi è sempre piaciuto il loro spirito, quel prendersi poco sul serio. Quell’attitudine punk che qui si è persa un po’. Sarà anche per la dipartita di due pezzi storici della band? Come quella di Joe Bradley, batterista e interprete della mitica canzone-manifesto del gruppo, Bad Kids. E il chitarrista Ian St. Pe, anche lui andato non si sa perché. Entrano in scena Oakley Munson alla batteria e Zumi Rosow al sassofono e rimangono fedeli alla linea il chitarrista Cole Alexander e il bassista Jared Swilley. Inoltre qui troviamo anche il contributo di Saul Adamczewski dei Fat White Family.
I Black Lips, anche se in maniera trasandata, sono nuovi e maturi. Le labbra nere destabilizzano, spiazzano. Travolgendo in un vortice di caos caustico (come nel singolo Can’t hold on), dileguandosi in atmosfere retro, sixties, cinematografiche, fumose e cariche di whisky, in quelle fuzzose di We Know o scivolando in ingenuità sdolcinate come nella bellissima Crystal Night o nelle ballate come Wayne. C’è anche una spassosa cover dei Beatles, It won’t be long.
Alla fine, dopo 18 pezzi, senti che qualcosa effettivamente è cambiata. Si sono spinti oltre. Oltre il lo fi, il dirty garage, il flower punk, oltre il pop degli ultimi anni. Diventando altro, esplorando nuovi territori. Smarrendo a volte la direzione, senza sapere esattamente dove andare. Ma a loro, si sa, piace maledettamente perdersi.