Review

|Review| Slowdive, “Slowdive” (Dead Oceans)

La fine degli anni ’80 del secolo scorso è stata la culla di un genere musicale prettamente britannico durato pochi anni ma che ha influenzato centinaia di band negli anni a seguire.

Lo shoegaze, così definito a causa della propensione dei musicisti di nascondersi dietro muri sonori di feedback e riverberi e passare gran parte degli show a controllare a testa in giù una miriade di effetti, lo shoegaze nato come continuazione alternativa e sperimentale delle band che avevano segnato la decade (Siouxsie and the Banshees, the Cure, Cocteau Twins, Jesus and Mary Chain) e che fu schiacciato dal brit-pop e scomparve rapidamente a metà degli anni ’90.

Slowdive (Dead Oceans 2017)

Agli Slowdive, una delle band più influenti del genere, non è andata diversamente. Nata a Reading nel 1989 dal genio compositivo di Neil Halstead affiancato dalla voce angelica di Rachel Goswell, le chitarre dilatate di Christian Savill e la fase ritmica minimale e pulsante di Nick Chaplin (basso) e Simon Scott (batteria), ci lasciarono nel 1995 dopo appena 3 fantastici dischi e una manciata di EP. Il debutto perfetto, Just for a Day (Creation/SBK, 1991), pietra miliare dello shoegaze, il capolavoro Souvlaki (Creation, 1993) e l’ultimo grande capitolo, Pygmalion (Creation, 1995), disco di rottura oscuro e minimale per cui Chaplin e Savill lasciano la band non contenti della direzione sperimentale intrapresa dai Neil e Rachel – i quali fonderanno in seguito i Mojave 3. Ma come ogni corrente musicale che si rispetti, prima o poi il genere ritorna, e i figli di quella generazione cresciuti a pane e Loveless (Creation Records, 1991) – bibbia shoegaze dei My Bloody Valentine – hanno cominciato a sfornare band ispirati da quel sound fumoso ed sognante partorito nei primi anni ’90 da band come Ride, Chapterhouse, Lush, My Bloody Valentine, e non per ultimo gli Slowdive. In questa rinascita nu gaze, uno alla volta, i gruppi storici hanno fatto ritorno. Chi perso in un buco nero da psicosi perfezionista per 20 anni come Kevin Shield che si risveglia nel ventunesimo secolo e sforna un disco complesso e raffinato come MBV (Pickpocket Records, 2013), oppure chi mosso da interessi economici ha preso i fratelli Reid, li ha portati nel deserto e costretti a stare nella stessa stanza senza uccidersi l’un l’altro per comporre un nuovo disco dei Jesus and Mary Chain (Damage and Joy – ADA/Warner, 2017). Gli Slowdive hanno ricominciato suonando insieme live dopo 20 anni di progetti paralleli. Lo scorso anno, ascoltandoli nell’apertura del concerto di PJ Harvey al Release Athens festival, non rimasi molto soddisfatto, pensai alla solita trovata commerciale. Lo ammetto, le aspettative erano molte, solo all’idea di andare ad un concerto degli Slowdive fremevo di gioia. E colpa l’eccessiva eccitazione, l’insicurezza sul palco di Neil e gli altri, ma sopratutto il suono poco curato del festival (davvero pessimo in apertura) non mi strapparono nessun “WOW”. Oddio, se uno dovesse essere onesto fino in fondo, ascoltare “Souvlaki Space Station” o la cover di Syd Barret, “Golden Hair”, al tramonto sul porto di Atene, qualche brivido l’ha scaturito. Ma ero comunque molto scettico quando arrivò la notizia di questo nuovo disco self-titled, Slowdive (Dead Oceans, 2017).

Lo metto su, e lo ascolto 3 volte di fila. E non ci posso fare niente. Sebbene suonino un po’ anacronistici questi Slowdive del nuovo millennio, le batterie riverberate, gli intrecci vocali di Rachel, le chitarre sature di chorus e delay che rimbalzano tra i ritmi da caverna lenti di Nick Chaplin e Simon Scott, non possono far altro che sciogliermi il cuore. Tutto si apre con “Slomo”, una ballata sincopata con un riff di chitarra molto post-rock che progredisce fino all’incalzare delle voci impastate di Neil che fanno da base per le melodie di Rachel. Poi parte “Star Roving”, 4 accordi piazzati li con la pennata tipica che in molti hanno cercato di emulare negli ultimi anni. 4 accordi che dicono senza presunzione: questo lo abbiamo inventato noi – perché suonano, suonano tremendamente e maledettamente bene. “Don’t know why” rimanda a Souvlaki, una composizione dolce enfatizzata da linee vocali intrise di delay che si espandono sopra il ritmo frenetico di batteria, un contrasto davvero ben riuscito. “Sugar for the Pill”, il pezzo scelto come singolo ed effettivamente quello più pop di tutto il disco, vuole quasi imitare “Alison” del ’94. Sceglie una linea di basso melodica e delle voci più comprensibili, ma non mi ha impressionato molto. “Everyone Knows” sopraggiunge come un peso massimo subito dopo, ed è la mia preferita del disco. Semplice e diretta, da manuale dello shoegaze, cadenzata da intermezzi puliti di chitarra che servono a dare potenza agli attacchi successivi. “No longer Making Time” e “Go Get It” rubano a man bassa dalla discografia precedente della band, in un tanto piacevole quanto fastidioso auto-referenziarsi. Il disco si chiude con “Falling Ashes”, forse l’unico pezzo dove gli Slowdive osano qualcosa. Quasi a proseguire quello sperimentalismo intrapreso nel 1995 con Pygmalion, il pezzo di chiusura è una lenta e oscura melodia costruita su un arpeggio di pianoforte e Neil e Rachel che coltivano una melodia ben studiata che culmina in un “thinking about love” ripetuto ossessivamente quasi ad inseguire i loop di chitarra.

Slowdive è un disco piacevole, lo metti su e scorre veloce percorrendo strade già note, strade che risiedono dentro di te, strade agevoli e incantate. Personalmente la cosa che razionalmente mi infastidisce è la poco volontà della band di proporre qualcosa di nuovo, la volontà di non si esporsi mai, di non rischiare. E’ come se 20 anni fossero scomparsi in un buco nero, così come le loro esperienze personali e musicali. Se fosse stato rilasciato a fine anni ’90 lo avrei adorato come i precedenti, ma nel 2017 un disco del genere finirà per annoiarmi facilmente. Ma dopotutto rompere due decadi di silenzio ed esordire con un disco difficile e sperimentale, come quel Pygmalion che decretò la loro fine, sarebbe stato un passo difficile e commercialmente poco fruttuoso. Ma sono fiducioso. Dopo aver ripreso con questo disco le redini del genere e mostrato a tutti i ragazzini del nu gaze che sono ancora dei maestri, gli Slowdive potrebbero ancora stupirci nel prossimo futuro con qualcosa di più maturo e articolato. Io ci spero.