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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [16]

«Everything dies, baby, that’s a fact. But maybe everything that dies someday comes back».

Nel 1981, reduce dal trionfale tour di supporto a un’opera enciclopedica come The River, Bruce Springsteen si era ormai affermato come “il dio tra gli dei del rock”, un archetipo americano capace di legare il rock’n’roll e il folk, Elvis e quella coscienza sociale incarnata dal Greenwich Village, da Woody Guthrie a Bob Dylan.

Archiviate l’epica cinematica, le ambizioni spectoriane e l’apologia della fuga di Born To Run, presto oscurate dall’impietoso confronto con l’età adulta di Darkness On The Edge Of Town, The River sancì la definitiva maturità cantautorale del songwriter del Jersey, ponendosi come perfetta summa di una poetica ancora animata da quello stesso spirito ribelle, ora però mitigato dallo spettro della disillusione e da un impegno crescente.

Emblematiche, in tal senso, oltre alla titletrack, tracce come Point Blank, Stolen Car, The Price You Pay, Drive All Night e Wreck On The Highway, in un certo senso anticipatrici di ciò che, di lì a breve, sarebbe accaduto agli antieroi della saga springsteeniana.

Parliamo di gente che si sveglia all’alba per andare in fabbrica, che si spacca la schiena in falegnameria, sulle autostrade o in un autolavaggio per un tozzo di pane. Gente vittima della crisi economica, come in The River, coincisa, tra l’altro, con il naufragio di un matrimonio riparatore fin troppo precipitoso.

I tramps di Born To Run sono cresciuti e si sono scontrati con la dura realtà di tutti i giorni, salutando per sempre i loro sogni di gloria.

Dopo Darkness, The River certificò così il passaggio di Bruce Springsteen da rocker senza macchia a nuovo simbolo proletario, cantore di una working class sconfitta da un American dream sempre più effimero.

Sarà anche, però, la momentanea fine di un ciclo esaltante, sfociato in una pausa di riflessione che spingerà il Boss a dar vita, in direzione ostinata e contraria, a qualcosa in netta antitesi – almeno a livello prettamente musicale – con la sua fase classica: Nebraska, il suo capolavoro folk, fulgido esempio di lo-fi ante litteram, registrato in perfetta solitudine (soltanto una chitarra e un’armonica) nella fattoria di Colt Necks, su un nastro a quattro piste.

Privo, per una volta, di quella macchina rock’n’roll rappresentata dalla E Street Band, Springsteen era riuscito a dar forma ai suoi fantasmi, plasmando un album grondante disperazione e fatalismo, che racchiudeva probabilmente la vera essenza di un songwriting intriso di cultura americana, profondamente debitore nei confronti di Flannery O’Connor, John Steinbeck e del mito della Frontiera.

Nebraska è il lato oscuro del concetto di epos springsteeniano, l’opera definitiva di un folksinger evoluto rapito dalla new wave più nichilista e dai Suicide.

E mentre Alan Vega e Martin Rev, con il loro revisionismo retrofuturista, esploravano il suono di una Grande Mela dei bassifondi violenta, deviata e allucinata, Springsteen proiettava quegli incubi metropolitani sulle stesse highways un tempo popolate da broken heroes in cerca di riscatto.

Una redenzione, a conti fatti, impossibile per chi, agli albori dell’edonismo reaganiano, non riusciva a uscire dal Grande Pantano ed emanciparsi da una dimensione di outsider opprimente. Fino a sfociare nella criminalità, nella follia, nella morte. Come i protagonisti della titletrack, ispirata da La Rabbia Giovane di Terrence Malick, cronaca della scia di sangue lasciata da Charles Starkweather e Caril Fugate tra il Nebraska e il Wyoming orientale nel 1958, o di State Trooper, blues ansiogeno in cui rintracciare maggiormente l’influenza dei Suicide: una corsa disperata non più verso la terra promessa ma verso il nulla.

Quelle raccontate in Nebraska sono storie di sopravvivenza in un’era, quella della Reagonomics, fortemente individualista, un j’accuse che contrapponeva Stato (istituzioni) e cittadini, vittime e carnefici, vincitori e vinti, manifestando un piglio quasi solidale persino nei confronti di chi arrivava a macchiarsi di crimini anche efferati.

È il caso del condannato all’ergastolo di Johnny 99 (“Ho contratto debiti che nessun uomo onesto può ripagare/La banca teneva stretta l’ipoteca e mi stavano portando via la casa/Non voglio dire per questo di essere innocente/Ma è stato molto più di tutto questo a mettermi quel fucile in mano”) e del rapporto turbolento tra il poliziotto Joe Roberts e il fratello Frank in Highway Patrolman, successivamente materia cinematografica per Sean Penn (Lupo Solitario), in cui Springsteen torna ad analizzare conflitti e dinamiche familiari rievocate in alcuni degli episodi più intimisti: Mansion On The Hill, My Father’s House e Used Cars.

Se fin qui resta evidente il legame con le tematiche di Darkness e The River, l’unico singolo scelto per lanciare il disco, l’opening track Atlantic City, recupera per un attimo l’immaginario e gli scenari di Born To Run (da Thunder Road a Jungleland), trasfigurati però da un senso di rassegnazione stagnante che non lascia più spazio al miraggio di una vita lontana dalla miseria, nonostante la flebile speranza di un possibile ritorno. Uno spiraglio di luce che riaffiora, seguendo una sorta di struttura circolare, nella conclusiva Reason To Believe, ultimo capitolo carico di stupore con cui seppellire quella vasta galleria di beautiful losers dati in pasto all’America di Reagan.

Due anni più tardi, Bruce Springsteen riemergerà dalla raggelante oscurità di Colt Necks, accantonando le polverose strade del Nebraska in favore del roboante rock’n’roll anni ’80 del bestseller Born In The U.S.A., l’album della consacrazione mainstream.

Eppure, paradossalmente, si tratta di un lavoro incredibilmente vicino al suo spettrale predecessore, a partire proprio dall’anthemica titletrack, in realtà scarto di quelle sessions rispolverato, nella sua versione embrionale (e certamente più fedele al mood del brano), in Tracks. Stesso discorso per la straziante Downbound Train, o per le “insospettabili” Working On The Highway e I’m Going Down, i cui contenuti continuano a stridere con gli arrangiamenti creati su misura per il gran ritorno della E Street Band (era già successo con The River).

Due opere agli antipodi ma legate da un sottile fil rouge che continuerà a manifestarsi ciclicamente in diverse fasi della sua carriera (The Ghost Of Tom Joad e Devils & Dust), pur senza mai scalfire il ruolo di Bruce Springsteen nell’iconografia del rock.

«Everything dies, baby, that’s a fact. But maybe everything that dies someday comes back». Come i perdenti e le storie sanguinanti di Nebraska: la fine del Sogno Americano.

di Francesco Sacco