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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [30]

Goin’ to be a long time gone…
L’arrivo degli anni ‘70 rappresentò un autentico spartiacque nella storia americana.

Fu il tramonto di un’era, delle illusioni pacifiste di cui si erano fatti portavoce la controcultura sixties, la contestazione giovanile e il Festival di Woodstock.

Erano gli anni di Nixon e, soprattutto, del neoconservatorismo reaganiano in California, un po’ l’epicentro flower power: un governo rigido e autoritario che sancì inevitabilmente la fine dell’american dream hippy, utopia già drammaticamente ridimensionata dal massacro di Bel Air ad opera di Charles Manson, dalla tragedia di Altamont e dall’incapacità di tradurre le proprie aspirazioni in programmi politici concreti e adeguati.

The times they are a-changin’, come diceva Bob Dylan, ma non nei termini auspicati dal menestrello di Duluth e da tutti quei folksinger che trovarono nel sole della West Coast un nuovo punto di riferimento.

Su tutti, i Byrds, tra i primi ad ampliare il vocabolario folk-rock e agire da gruppo satellite con cui legare il cantautorato di protesta e le derive psichedeliche che andranno ad affermarsi sul finire degli anni ’60.

Merito, in particolare, delle visioni lisergiche di David Crosby, deus ex machina della loro svolta psych che, dopo aver archiviato l’esperienza accanto a Gene Clark e Roger McGuinn e aver dato vita a uno dei supergruppi più amati di sempre (Crosby, Stills, Nash e in seguito Young), celebrerà la fine della Summer Of Love in un debut a suo nome semplicemente epocale.

Sì, perché If I Could Only Remember My Name…., uscito nel 1971, nel bel mezzo di tumulti interiori e sociali non indifferenti, è molto più di un disco.

È la perfetta istantanea di quel periodo di transizione, il testamento spirituale di un’intera comunità musicale, quella della Bay Area, fin lì promotrice di una proposta, al di là dei generi, alimentata dagli stessi ideali presto annientati da una classe politica quanto mai reazionaria.

È questo lo scenario in cui Croz radunerà a sé i principali esponenti della musica californiana, per un lungo addio destinato a rimanere l’apice della sua produzione solista. Ci sono i Jefferson Airplane (Grace Slick, Paul Kantner, Jack Casady e Jorma Kaukonen), i Grateful Dead (Jerry Garcia, Phil Lesh, Mickey Hart e Bill Kreutzmann), tracce dei Santana (Michael Shrieve e Greg Rolie), dei Quicksilver Messenger Service (David Freiberg), Joni Mitchell e, ovviamente, gli ormai inseparabili Graham Nash & Neil Young (assente Stills).

Una line-up impressionante che accompagnerà Crosby in un ultimo valzer dimesso, malinconico, impregnato di umori che poco hanno in comune con l’ottimismo di un tempo, quando “la musica era amore” (o almeno, così dicevano).

Un mantra ripetuto ancora con convinzione, nonostante l’imminente epilogo, dalle tipiche armonizzazioni westcoastiane di Music Is Love, sorta di rehearsal a luci soffuse utile a fissare, in tutto il suo minimalismo, il mood intimo dell’album.

Intimismo pronto a sfociare in trance ipnotiche eteree, sognanti, quasi trascendentali in due dei massimi capolavori di If I Could Only Remember My Name….: Tamalpais High (At About 3) e, soprattutto, Songs With No Words (Tree With No Leaves). Si tratta di due brani dalla struttura affine, liquida, evanescente, guidati dalle linee melodiche di un Crosby incapace di proferire parola dinnanzi al maestoso paesaggio dipinto da un tessuto sonoro metafisico.

Perché a volte, anche se sei uno dei più grandi cantautori esistenti, basta poco per trasmettere un’emozione o un messaggio.

Un messaggio di pace in cui la musica diventa riconciliazione con la natura, con Dio, evocato attraverso languidi arpeggi psichedelici e sinuosi vocalizzi in grado di raggiungere vette mistiche inesplorate, per poi svanire, come un miraggio, sulle note singhiozzanti delle chitarre di Jorma Kaukonen e Jerry Garcia. Sono questi probabilmente i veri episodi paradigmatici, quella guiding light che indicherà il percorso da seguire, ben oltre le famose otto miglia dei Byrds, ad altre gemme in bilico tra dilatazioni strumentali e salmi meditativi con cui scolpire indelebilmente l’ultimo crepuscolo scorto da Laurel Canyon.

È il caso delle invettive politiche della semi-improvvisata What Are Their Names, delle suggestioni orientali di matrice psych del classico Laughing o della struggente preghiera di Traction In The Rain, proiettata in una dimensione ultraterrena dall’autoharp di Laura Allan e dalle modulazioni di Crosby.

C’è spazio anche per quell’acid rock tanto in voga dalle parti di San Francisco (le folgorazioni elettriche in salsa western, sulla scia del primo Neil Young, di Cowboy Movie), ma si tratta soltanto di una virata estemporanea, destinata a dissolversi, terminati gli effetti di un trip sotto Lsd, nello spiritual di Orleans e, infine, nell’allucinata liturgia di I’d Swear There Was Somebody Here, straniante nenia ricca di sovraincisioni con cui salutare per sempre un’era irripetibile.

È la catarsi definitiva, il punto di non ritorno di quel viaggio cosmico tra tormento ed estasi, dolore e magia, dannazione e redenzione.

Non a caso, dovranno trascorrere ben diciotto anni prima di dar risposta a quell’inafferrabile esordio: Oh Yes I Can, secondo album da solista pubblicato nel 1989, dopo altri due decenni tribolati, sia sotto il profilo artistico che personale. Ma quella magia era ormai un lontano ricordo, sempre più sbiadito tra i solchi del successivo Thousand Roads (1993).

Seguirà l’ennesima pausa monstre, stavolta però utile a rimettere ordine e riprendere, una volta per tutte, il discorso interrotto. Sarà l’inizio di una nuova fase, mossa da un’insolita bulimia creativa inaugurata con Croz (2014) e culminata in una serie di lavori in rapida successione (Lighthouse, Sky Trails e Here If You Listen) che spingeranno l’evoluzione dei suoni West Coast verso i sofisticati lidi soft-rock di For Free (2021).

Una rinascita sorprendente, l’improvviso slancio vitale di chi, prossimo a varcare la soglia degli ottant’anni, ha finalmente deciso di tornare a scandagliare l’ignoto alla ricerca del tempo perduto. Lo ha ritrovato, Crosby, seppur per poco. Insieme al suo nome. Un nome che nessuno potrà mai dimenticare.

In memory of David Van Cortlandt Crosby (14/08/1941 – 18/01/2023)

di Francesco Sacco