Review

|Review| Il nuovo Universo psych-jazz dei Dream Syndicate

The Dream Syndicate – The Universe Inside (ANTI-Records, 2020)

C’è qualcosa di misterioso e ancestrale nella seconda vita dei Dream Syndicate. Qualcosa che potrebbe ricondurre al patto col diavolo del discografico Swan ne Il Fantasma del Palcoscenico, tripudio psichedelico di iconografia glam diretto da Brian De Palma nel 1974. Oppure alla leggenda di Dorian Gray e Basil Hallward, con l’elisir dell’eterna giovinezza forse nascosto in qualche oscuro dipinto in soffitta firmato Steve Wynn (e la sua passione per la pittura è cosa nota). Qualunque sia il segreto della band californiana, di certo, giunta al terzo disco in tre anni, è riuscita a realizzare un capolavoro degno dei gloriosi “giorni del vino e delle rose”, seppur diametralmente opposti.

How Did I Find MySelf Here?, l’atteso comeback dei Dream Syndicate arrivato dopo un’intensa attività live, aveva già mostrato un gruppo in grande spolvero, memore del passato ma affatto imbrigliato nei suoi cliché, mentre These Times lasciava intravedere il desiderio di nuove forme espressive, distanti dagli stessi canoni del Paisley Underground.

Ambizioni che trovano pieno compimento nelle folli tracce di The Universe Inside, punto di rottura con qualsiasi cosa i Syndicate abbiano mai fatto in precedenza, portando a conclusione un processo di recupero della psichedelia con ben pochi eguali.

Di pietre miliari, anche diverse fra loro, negli anni ’80 ne avevano dato alle stampe almeno un paio (The Days Of Wine And Roses e Medicine Show), dove la componente psych era attraversata da una spigolosità paranoide figlia del punk e della new wave più chitarristica dei Television, scenario perfetto per gli incubi metropolitani tra noir e hard-boiled di Steve Wynn, uno dei pochi cantautori in grado di “far sanguinare i versi delle sue canzoni”. Quella formula non esulava però da un certo approccio free jazz, una tendenza alla jam che spesso sfociava in trip lisergici folgoranti (John Coltrane Stereo Blues), soprattutto dal vivo (Live At Raji’s). Attitudine divenuta predominante, a livello concettuale e sonoro, nell’antimateria di The Universe Inside, sorprendente risultato di un’unica session di improvvisazioni notturne, riassemblata in post-produzione seguendo l’esempio di editing di Theo Macero per Bitches Brew del sommo Miles Davis.

Dopo gli indizi disseminati in These Times, il nuovo corso è stato confermato dal primo, spiazzante singolo: The Regulator, viaggio allucinante nel cuore underground di New York (il videoclip di David Dalglish) della durata di ben venti minuti e sorta di manifesto di tutto ciò che avrebbe caratterizzato l’intero disco.

C’è il kraut rock dei Can, il jazz elettrico di Davis (anche On The Corner), il funk di Sly And The Family Stone, l’art rock glam dei Roxy Music e persino echi della scena di Canterbury nella sua incarnazione più obliqua: i Soft Machine di Robert Wyatt.

Ampio spazio all’improvvisazione, dunque, a discapito di una forma canzone qui destrutturata, liquida, mutante, libera di fluire in una trance ipnotica free-form a cui si aggiungono strumenti inconsueti (la drum machine Maestro Rhytm King, il sitar di Stephen McCarthy e i fiati di Marcus Tenney). Sono queste le novità assolute di un disco coraggioso in cui lo stile Syndicate, notoriamente una guitar band, è rintracciable prevalentemente nell’infaticabile sezione ritmica composta dai soliti Mark Walton (basso) e Dennis Duck (batteria). I dialoghi nervosi tra le chitarre di Jason Victor e Wynn vengono ridotti all’osso e relegati sullo sfondo, così come i versi declamati dalla voce ora cavernosa, ora livida del leader, sempre più vicino al talking dell’amato Lou Reed.

Uno stream of consiousness altamente irregolare tenuto insieme dalle tastiere galattiche di Chris Cacavas, principale collante psichedelico nelle suggestioni space di Apropos Of Nothing, a metà tra kosmische musik e le fughe interstellari degli Hawkwind.

Altro satellite in orbita è quello del Bowie avant-jazz di Blackstar, il suo testamento artistico, nume tutelare di The Longing (la più breve del lotto con i suoi quasi 8 minuti) e la crepuscolare The Slowest Rendition, con la tromba di Tenney a farsi largo nella foschia rievocando il lavoro di Don Cherry in The Bells di Reed (“I can hear those ringing bells again”) e certi voli non proprio vivaci della new wave dei Tuxedomoon.

Dusting Off The Rust è invece l’afflato più evidente del classico sound (il giro di basso di Walton, l’armonica di Wynn e il drumming metronomico di Duck): una nuova variante black di John Coltrane Stereo Blues, ora arricchita da fiati blaxploitation e dai ricami doorsiani di Cacavas, chiara testimonianza di come certa ruggine, in realtà, non dorma mai.

Scevro da qualsivoglia diktat discografico, The Universe Inside fotografa alla perfezione la seconda giovinezza di una band che, dopo aver scritto alcune delle pagine pù importanti del rock americano anni ’80, ha deciso di rinveridre i fasti del passato virando verso territori inesplorati. Non un’operazione nostalgica, ma il frutto di una sana voglia di sperimentare e creare un nuovo linguaggio psichedelico postmoderno.

Difficile capire come siano arrivati i Dream Syndicate sino a qui, ma l’impressione è che i giorni del vino e delle rose siano tornati. E forse sono meglio di un tempo.

di Francesco Sacco