Review

|Review| La Municipàl ci ricorda che abbiamo bisogno di sentirci tristi

La canzone che ho riprodotto più insistentemente l’estate scorsa è stata I tuoi bellissimi difetti de La Municipàl: la ascoltavo in sessione, al lavoro, e poi ancora in spiaggia, e gettata con lo sguardo fuori dai finestrini degli autobus e dei treni.

Sono entrata così tanto in simbiosi con quella canzone che ho pensato che La Municipàl, aka i fratelli Tundo, fossero arrivati a un punto massimo, oltre il quale non sarebbe stato facile andare. Dopo Bellissimi difetti, le aspettative che avevo nei loro confronti erano altissime.

Il 16 aprile è uscito il doppio singolo composto da Canzone d’addio e Che cosa me ne faccio di noi, secondo pezzo del puzzle di Per resistere alle mode, un progetto che prevede l’uscita di due brani strettamente connessi l’uno con l’altro, nella forma del vecchio 45 giri.

Come era stato già per Quando crollerà il governo e Fuoriposto, i due nuovi brani costituiscono un binomio, in questo caso legato dalle parole di una storia ormai arrivata al suo punto di non ritorno:

Che cosa me ne faccio, se non ci capiamo più? /  E se in quello che ho da dire non c’è più gioia, non c’è amore? /  Che cosa me ne faccio di noi? / Ma che cosa me ne faccio di noi?

Canzone d’addioChe cosa me ne faccio di noi non affrontano la separazione, bensì il momento che la precede di pochissimo: quello in cui ci rendiamo conto di quanto la storia ci stia stretta, portandoci ad odiare anche le più piccole cose.

Che cosa me ne faccio del segnale / Se non ci chiamiamo più / Che cosa me ne faccio della voce / Se tanto non parliamo più / Che cosa me ne faccio delle ferie / Se tanto non andiamo al mare / Che cosa me ne faccio delle serie / Se non guardiamo la tv.

Davanti alla sensazione pesante della fine, la necessità di guardare avanti, e di superare, almeno col pensiero, il momento della separazione: è la voglia di vivere la serenità e la pace, prima che arrivi qualcos’altro a rovinare tutto.

Ma lasciamoci andare / Prima che arrivino altri estranei / A rovinarci la pace / Lasciamoci andare/ Prima che arrivi un’altra guerra / A rovinarci l’estate / (Un’altra estate).

Lo sguardo è rivolto in particolare all’altro: i due brani portano con sé tanto la voglia di liberarsi della pesantezza, quanto la tenerezza amara che sorge pensando all’altra persona. È come se la separazione fosse imposta, e nessuno dei due, in realtà, la volesse così come cerca di convincersi. È la tenerezza dei primi ricordi (Che cosa me ne faccio di noi):

La notte mi ricorda di quando eravamo piccoli e ci amavamo senza pietà/ Di quando avevi gli occhi che brillavano / Dalla prima canzone che ti scrissi anni fa / (…) Di quella volta che ci siamo fatti così male che volevano tagliarci a metà / Di quella volta che ci siamo fatti così a pezzi che eravamo un puzzle del tuo DNA.

Ed è soprattutto l’amarezza di quando ti rendi conto che non farai più parte della vita dell’altro (Canzone d’addio): 

Su quante spalle ti consolerai / Quali canzoni e quali dischi odierai / Cancellerai le notti insonni su real time / O lascerai le porte aperte / Solo per noi.

Canzone d’addio e Che cosa me ne faccio di noi si confondono l’una nell’altra: sono contemporaneamente sia due momenti diversi che lo stesso.

I due brani sono usciti in un periodo in cui sentirsi tristi e a pezzi sembra essere quasi vietato.

Accendendo la tv, o accedendo a qualsiasi social network, siamo inondati da un tipo di positività quasi fastidioso. Di fronte a una serie di esempi attivi, ci sentiamo quasi costretti a buttarci nelle più assurde attività pur di impegnare il tempo, nascondendo il fatto che abbiamo bisogno anche di sentirci a pezzi. Questo è il merito più grande e il riconoscimento che vorrei fare a La Municipàl.

Tornando indietro fino a Le ferie di metà settembre e L’universitaria fuori sede e arrivando, attraverso brani come I mondiali del ’18, al binomio di Canzone d’addio: meno male che c’è ancora qualcuno che non ha paura di dirci che abbiamo bisogno di sentirci tristi come Robert Smith e a pezzi come Roberspierre.

di Chiara Grauso

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