Review

|Review| Order In Decline è il nuovo disco dei Sum 41

I Sum 41 tornano sulla scena musicale con l’ultimo lavoro discografico rivoluzionando il loro sound. O forse no.

I Sum 41 hanno bisogno di poche presentazioni: il gruppo canadese capitanato da Deryck Whibley è da considerarsi uno dei maggiori portatori di interessi del cosiddetto “pop punk” ovvero quel filone del punk più accessibile e orecchiabile che, soprattutto dagli anni duemila, ha macinato successi grazie a gruppi come i Blink-182, Good Charlotte e MxPx o – sempre per rimanere in Canada – i Simple Plan.

Sebbene siano infiniti i gruppi che nella storia sono stati associati a questo genere – dai Weezer  agli Offspring, senza dimenticare la rappresentanza femminile come Avril Lavigne (per gli appassionati di tabloid, la ex moglie di Deryck),  in questo articolo mi è stata chiesto di non divagare e concentrarmi sull’ultimo lavoro in studio della band Order In Decline, uscito lo scorso luglio per la Hopeless Records.

Tutta queste premesse, in realtà, servivano per introdurre al meglio questo lavoro.

Sì perché, visto che la storia della musica concede una certa prevedibilità, soprattutto se sforni un successo pop e commerciale, perché non dovresti continuare con la stessa formula, se ti riesce bene e in più vendi un sacco di dischi?

Partiamo dal 2001: in quell’anno i Sum 41 sfornano un disco dal successo inaspettato All Killer No Filler, che rapidamente scala le classifiche e diventa, a pochi mesi dall’uscita, disco d’oro e poi disco di platino.

Con sonorità punk delicate ma al tempo stesso energiche e decise, il gruppo canadese si guadagna la stima di colleghi di categoria e successo internazionale.

Da quell’estate del 2001 ad oggi, la band ha avuto diversi cambi in formazione con il solo Whibley come punto fisso – lui e i suoi problemi con l’alcool come da manuale della rock star – e ha realizzato 7 album in studio.

In questa settima fatica si avverte lo sforzo di allontanarsi dalle sonorità che hanno fortemente etichettato i Sum 41 negli ultimi 10 anni (il gruppo di fatto esiste dal 1996), cercando di spingersi oltre e abbracciando uno stile più metal con tempi più serrati, testi più politicizzati ed impegnati e arrangiamenti più crudi e aggressivi.

Fin dalla prima traccia Tuning Away il gruppo tenta di fare qualcosa di diverso dal classico lavoretto pop scala classifiche e l’impressione è confermata con Out For Blood, la seconda traccia del disco ma primo singolo ad anticipare il nuovo lavoro.

Arriva quindi The New Sensation, che sembra aver saccheggiato il peggio del power pop dei Green Day e dei Muse. E poi, neanche alla quarta  canzone, l’idillio di un’odissea fatta di heavy, hardcore, lacrime e sangue si interrompe bruscamente.

Dead In The Family non propone nulla di innovativo rispetto ai lavori precedenti della band, anche se l’assolo di chitarra è di buon effetto e sorprende piacevolmente.

Già con Heads Will Rool si torna alla sensazione di déjà vu sopra citata. Con 45 (A Matter of Time) si avverte un tentativo di avvicinamento al rap metal, che tra l’altro fa parte del background di Whibley delle origini, senza però lasciare il segno.

E poi arriva, perché arriva sempre prima o poi, la classica power ballad Never There: pianoforte e chitarra acustica e voce struggente (uscita come secondo singolo un mese prima del lancio di Order In Decline), che parla di una storia d’amore finita male (ma dai?), però è così che va il destino e non rimane che rimuginarci sopra.

Perché comunque io sto bene da solo (e tu chissà), ma stiamo bene così perché la nostra storia non poteva proprio andare avanti.

Per carità non ho nulla contro le ballate, anzi se vengono in Italia per il tour di presentazione sarò in prima fila a strillare:

…You and I share the same life missing out

So the story goes

That we’re left, we’re stuck with a broken house

I know that if the

The chance appears I’d have no fears

We both share pain

We feel the same

Giuro!

Però ecco è tutto così artificialmente prevedibile che a questo punto conveniva metterla come canzone finale e non come traccia numero 7.

Seguono vari tentativi per farci riprendere dai dolori di questo cuore spezzato con Eat Your Alive, che forse è una delle tracce migliori del disco e con The People Vs…, con cui cambiano stile avvicinandosi più all’hardcore melodico dei NOFX (dei tempi di White Trash, Two Heebs and a Bean).

Niente male. Ed infine il disco chiude con un’altra ballata (e siamo a 2), per certi versi meno strappalacrime della prima, ovvero Catching Fire.

Tutto concentrato in 10 brani per 36 minuti e 3 secondi di disco. Quindi?

Insomma, devo ammettere che i Sum 41 ci hanno provato a fare qualcosa di innovativo (per i loro standard), di più cattivo e vigoroso e in due o tre canzoni ci sono quasi riusciti. Poi però sarà prevalsa la ragionevolezza di un mercato pigro e incline alla rivoluzione che poi non rivoluziona nulla.

Forse è un inizio per voltare pagina o semplicemente l’inizio del declino di una band che non riesce più a stupire e a rinnovarsi mantenendo invece un mood di cover band di se stessi. Ci sono passati tanti gruppi e tanti ci passeranno.

È il music biz …baby.

 

di Damiano Sabuzi Giuliani