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|Review| Saudade, il viaggio senza muoversi degli Oremèta

Saudade degli Oremèta è un viaggio nel tempo e nello spazio. Un viaggio che ci porta lontano dal mainstream e dalla deriva dell’Hip Hop.

Marracash, Sfera Ebbasta, tha Supreme, Ghali e Gué Pequeno: i dati FIMI sui dischi più venduti in Italia nel 2020 non lasciano spazio a fraintendimenti. L’hip hop, e in particolare la trap, è in alto nell’indice di gradimento degli italiani. Un sound che ha origini lontane e, che nel giro di trent’anni, è cambiato talmente tanto da essere quasi irriconoscibile.

Dagli Articolo 31, Sottotono, Frankie hi-nrg e Neffa negli anni Novanta, si passa ai Club Dogo che, con Mi Fist (2003), cambiano per sempre il volto italiano dell’Hip Hop e traghettano il genere verso il mainstream. Da qui i vari Fabri Fibra e Mondo Marcio e le major discografiche che – in linea con gli altri paesi occidentali – si danno battaglia per accaparrarsi il nuovo nome dell’Hip Hop italiano.

Poi arriva la trap da un lato e, dall’altro, un filone guidato da Coez, Ghemon, Willie Peyote, Frah Quintale, Carl Brave, Franco126 che in qualche modo fondono hip hop e canzone d’autore tanto da non rendere più visibile la distinzione tra musica pop e quel genere che una volta veniva chiamato rap.

Sicuramente questa estrema sintesi qui sopra ha tutti i limiti del caso e molto probabilmente gli amanti del genere (quale genere?) troveranno diverse defezioni (tipo: Salmo dove lo metti?). Ma tutta questa premessa serviva solo per dare un’idea del mio stupore quando ho sentito per la prima volta Saudade, il disco di esordio degli Oremèta, band romana composta da  Dario Cangreo, Chiara Pisa e Giulio Gaigher che si sono ritrovati in un palazzo di Ostia durante il lockdown e hanno messo insieme esperienza, idee e storie e  chiuso un disco di circa mezz’ora molto prezioso.

Prezioso perché le storie raccontate dalla penna di Dario e Chiara non sono scontate o banali. Non si parla di donne, soldi, amore e macchine veloci (altra semplificazione del genere dominante!), ma vi troviamo tutta la bellezza del viaggio.

Quel viaggiare senza muoversi. Senza potersi muovere. Un viaggio nel tempo che, per certi versi, ci riporta alle origini di un genere musicale che viene da lontano, dalla cultura afroamericana degli anni Settanta.

Il tutto raccontato su un flow hip hop che ricorda quella che i nostalgici chiamano ‘vecchia scuola’ con sfumature soul e dub/reggae. Nonostante gli Oremèta non abbiano inventato nulla di nuovo sono riusciti a stupirmi e farmi tornare la nostalgia per un genere che, nel cuore di molti, a metà anni Novanta ha lasciato il posto al punk rock, al grunge, all’indie italiano.

Di certo non saranno Dario Cangreo, Chiara Pisa e Giulio Gaigher a salvare (o a risollevare) questo genere musicale. Ma sono riusciti a fare qualcosa di anticonformista e, per tornare all’elenco dei nomi snocciolati sopra, originale.

Mi ricordano molto gli Otto Ohm di inizio secolo per l’estro creativo, l’attitudine e il coraggio.

Ottimi gli innesti dell’armonica bocca che danno quel tocco pragmatico di nostalgia, malinconia e voglia di futuro.

Chiudo dicendo che mi piacerebbe molto vederli dal vivo. Magari con una band strumentale d’appoggio. Magari sulla spiaggia nuda di Capocotta con le dune alle spalle, la sabbia tra i capelli e lo sguardo all’orizzonte.

A fine gennaio 2021 è il sogno più grande che uno possa fare ascoltando questo disco.

di Damiano Sabuzi Giuliani