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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [10]

«Che cosa è nata prima: la musica o la sofferenza? Ai bambini si tolgono le armi giocattolo, non gli si fanno vedere certi film per paura che possano sviluppare la cultura della violenza, però nessuno evita che ascoltino centinaia, anzi, dovrei dire migliaia di canzoni che parlano di abbandoni, di gelosie, di tradimenti, di penose tragedie del cuore. Io ascoltavo la pop music perché ero un infelice. O ero infelice perché ascoltavo la pop music?».

L’amore è notoriamente uno dei temi più diffusi nella storia dell’arte in tutte le sue declinazioni, da quelle figurative alla letteratura, dal cinema a quello che è, ovviamente, il nostro campo di interesse: la musica. Nel caso specifico, “le tragedie del cuore” sono diventate il motore di svariate opere e canzoni scolpite nell’immaginario collettivo, come sottolineato da Rob Gordon in Alta Fedeltà, cult letterario di Nick Hornby portato sul grande schermo da Stephen Frears nel 2000.

E il monologo iniziale di John Cusack potrebbe essere un po’ la giusta chiave per introdurre il classico dimenticato di questa nuova puntata di Warehouse.

Dimenticato perché, nonostante i pareri concordi di critica e all’epoca anche pubblico nel definirlo uno dei grandi capolavori anni ’80, un titolo come The Lexicon Of Love degli ABC rischia sempre di passare in secondo piano rispetto ai vari bestseller targati Duran Duran o Spandau Ballett, almeno per quel che concerne una certa iconografia new romantic. Beh, sarebbe un grave errore.

Pubblicato nel 1982, anno particolarmente significativo per il synth pop (Rio della band guidata da Simon Le Bon, New Gold Dreams dei Simple Minds, il debut degli A Flock Of Seagulls e tanti altri), The Lexicon Of Love dimostrò come il neoromanticismo potesse andare oltre look e mode (comunque ben presenti), riabilitandolo dinanzi al giudizio affrettato di chi limitava quel filone a un mero fattore estetico privo di reali contenuti.

Si potrebbe discutere a lungo sull’effettiva rilevanza di un sottogenere così glamour da esser bollato come pomposo e superficiale, ma non è questa la sede opportuna, anche perché l’esordio degli ABC rappresenta la classica eccezione alla regola.

Gran parte del merito va attribuito alla visione dietro la nascita di quello che è a tutti gli effetti il disco più completo e ambizioso dell’intero movimento new romantic, nonché l’album ideale da metter sul piatto a San Valentino se il tuo rapporto con l’amore oscilla tra quello di Arthur Block con la vita e i tormenti vampireschi del Nosferatu di Werner Herzog (“La mancanza d’amore è la più crudele e abietta delle pene”).

Si tratta, infatti, di una sorta di concept sul più nobile – o presunto tale – dei sentimenti, in cui la penna del leader Martin Fry (cantante e autore di tutti i testi) si diverte a esorcizzare la frustrazione derivata da un’instabilità affettiva cronica attraverso dieci brillanti capitoli in bilico tra dramma, commedia e vignette nonsense.

Se la vena del frontman si rivela piuttosto ispirata nel redigere un lessico quanto mai tragicomico dell’amore, ciò che emancipa definitivamente The Lexicon Of Love dagli altri lavori del periodo sono gli arrangiamenti spectoriani voluti dal produttore Trevor Horn (Buggles e Yes), deus ex machina in grado di plasmare un suono sì patinato ma ricco di riferimenti soul, funk e disco, aggiornati ai tempi del synth pop.

Velleità da wall of sound che trovano pieno compimento nella scelta di puntellare quel melting pot barocco con un’orchestra di 30 elementi diretta da Anne Dudley, coadiuvata da J.J. Jeczalik al campionatore Fairlight CMI (entrambi, poi, negli Art Of Noise insieme a Horn), autentico valore aggiunto di uno dei “1001 dischi da ascoltare prima di morire”.

Forti di un inedito approccio intellettuale e di arrangiamenti mai così sofisticati in ambito dancefloor, gli ABC troveranno la formula magica per rimanere negli annali e sfondare in classifica, trascinati da una serie impressionante di hit dal tasso qualitativo elevatissimo.

Una su tutte: il tormentone The Look Of Love, mini-suite suddivisa in quattro parti (nel disco, però, troveranno posto soltanto la Part I e IV) e accompagnata da un celebre videoclip ammiccante al music hall britannico.

Discorso analogo per Tears Are Not Enough, il Cupido beffardo di Poison Arrow e la malinconica ballad All Of My Heart (“What’s it like to have loved and to lose her touch? What’s it like to have loved and to lose that much?”), tutte entrate nella Top 20 del Regno Unito. Al di là delle charts, però, è l’intero album a non conoscere punti deboli, a partire da Show Me, opening track pre-riassuntiva tra archi dal sapore cinematografico e un tappeto funky chic chirurgico (degno di nota, soprattutto, il basso della special guest Brad Lang) che caratterizzeranno buona parte degli episodi successivi.

È il caso delle innumerevoli sventure elencate da Fry in Valentine’s Day, dell’indemoniato groove à la Nile Rodgers di Many Happy Returns e persino delle sfumature crepuscolari di 4 Ever 2 Gether e Date Stamp, in cui l’oggetto del desiderio inizia a manifestarsi apertamente grazie alla voce di Tessa Webb. Il successo incoraggerà la band ad ampliare il concept in Mantrap, short-film girato dal leggendario Julien Temple e interpretato dalla stessa band sulle note di Lexicon Of Love.

Resterà, però, l’ultimo vagito di quell’equilibrio miracoloso legato all’esordio.

Trentaquattro anni dopo, in realtà, Fry, ormai solo al comando, tornerà a parlare d’amore in un temerario sequel (The Lexicon Of Love II) affidato di nuovo alle orchestrazioni della Dudley, riuscendo anche nell’ardua impresa di scongiurare un suicidio artistico quasi annunciato, ma non l’effetto déjà-vu tipico di certe operazioni nostalgiche.

Colpa, forse, di un predecessore fin troppo ingombrante, fulgido esempio di un pop colto capace di sposare i trend del momento senza perdere un minimo di credibilità.

Qualcosa che andava ben oltre la musica da ballo, strizzando semmai l’occhio al romanticismo dei Roxy Music post Brian Eno (Avalon uscì proprio quell’anno) e a un’intera tradizione black che affondava le sue radici nella Stax e nella Motown.
Si parla tanto di Spandau Ballet e Duran Duran, ma nessuno di loro aveva il lessico degli ABC. If you judge a book by the cover, then you judge the look by the lover.

di Francesco Sacco