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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [12]

“Bisogna fare della propria vita come si fa un’opera d’arte. Bisogna che la vita d’un uomo d’intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui”.

Difficile, in effetti, trovare qualcosa di più adatto del vecchio credo dannunziano alla vita di David Bowie, scomparso il 10 gennaio 2016, due giorni dopo il suo 69° compleanno, coinciso, tra l’altro, con la release del suo testamento artistico e spirituale: Blackstar, degna conclusione di una carriera in continuo mutamento, che è riuscita a passare indenne attraverso i decenni grazie a un eclettismo con ben pochi precedenti nella storia del rock.

Sulla figura di David Robert Jones, soprattutto in tempi recenti, si è detto e scritto tanto, ragion per cui potrebbe apparire superfluo sottolineare, una volta di più, quanto il suo modo di concepire la musica, intesa come forma d’arte totale, abbia influito sullo sviluppo della pop music, anche in termini prettamente iconografici.

I fasti glam (con il trittico Hunky Dory, The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars e Aladdin Sane), la sbornia plastic soul di metà anni ’70, la trilogia berlinese (Low, Heroes e Lodger), anticipata dal “ritorno” del Thin White Duke di Station To Station: sono tutti momenti cruciali che hanno contribuito a plasmare mode e tendenze successive, non solo in ambito musicale.

Se già l’epopea di Ziggy Stardust era stata in grado di alzare l’asticella e far confluire in un’unica retta arte e spettacolo, cultura pop e intrattenimento, c’è forse un disco che più di tutti ha iniziato a svelare le reali ambizioni del cantautore inglese, seppur liquidato frettolosamente come un polpettone kitsch, pretenzioso e confuso.

Un concept controverso e assolutamente da rivalutare, ispirato a 1984 di George Orwell e Ragazzi Selvaggi di William Burroughs, con cui Bowie, dopo aver seppellito il suo alter-ego alieno (e gli Spiders from Mars) all’Hammersmith Odeon di Londra, chiuderà definitivamente i conti con il glam virando verso i suoni tanto in voga oltreoceano, in particolare il Philadelphia Sound: Diamond Dogs.

Ambientato in un futuro distopico, nella città immaginaria di Hunger City, l’album immortala un’umanità alla deriva, soggiogata dall’occhio implacabile del Grande Fratello e da esseri mostruosi, metà uomo metà cane (i Diamond Dogs del titolo), guidati da un nuovo personaggio: Halloween Jack, un “tipo tosto che vive sui tetti della Manhattan Chase”.

Uno scenario post-apocalittico che fa da sfondo al disco forse più dark di questa prima fase, ben rappresentato dall’inquietante prologo, Future Legend, pronto a sfociare nell’ambigua title-track, un trascinante honky-tonk à la Rolling Stones in cui Bowie estende fatalmente il suicidio rock’n’roll del suo Ziggy alla fine dell’intero genere umano (“Questo non è Rock’n’Roll. Questo è Genocidio”).

È questo il principale punto di contatto con il glam corrotto dal blues dei dischi precedenti (soprattutto i passaggi meno jazzy e barocchi di Aladdin Sane), ripreso anche in Rebel Rebel, semplice e accattivante quanto basta per divenire l’ennesimo inno generazionale.

Ma Diamond Dogs è molto di più. Emblematica, in tal senso, la pseudo-suite Sweet Thing/Candidate/Sweet Thing, manifesto gotico di questo nuovo corso fortemente influenzato, per ammissione dello stesso cantante, da un uso smodato di cocaina e vertice ineguagliato di quel crooning melodrammatico che in seguito caratterizzerà gli episodi più riusciti della sua carriera, a partire dal soul robotico e decadente di Station To Station.

Black music assoluta protagonista nella seconda facciata, inaugurata dal refrain ad ampio respiro di Rock’n’roll with me, ballad dal sapore autobiografico in cui Diamond Dogs rivela la sua natura di musical poi abortito per via della riluttante vedova Orwell.

In 1984, palesemente ispirata a Theme From Shaft, il nume tutelare è invece il funk di Isaac Hayes, da cui Bowie assorbirà quelle orchestrazioni sinfoniche e quei lick tipici del Philly Sound. Riferimenti al romanzo dello scrittore britannico ancor più espliciti nella morbosa rassegnazione di We Are The Dead e in Big Brother, atto conclusivo in attesa di un destino ineluttabile che assumerà forma definitiva nell’angosciante finale onomatopeico di Chant Of Ever Circling Skeletal Family, bruscamente interrotto, come quegli istanti d’amore clandestino tra Winston e Julia, sull’ultima disperata invocazione al Grande Fratello.

Nonostante l’ostracismo di buona parte della critica più snob, fin troppo avversa ai presunti deliri onanistici di cui Bowie è stato spesso accusato, anche Diamond Dogs incontrerà il parere favorevole del pubblico, proiettando i freaks di Hunger City al numero uno nelle charts britanniche.

Ma al di là del successo, resta un importante spartiacque nella sua carriera, sia a livello concettuale che sonoro: l’anello di congiunzione ideale tra due fasi in cui riversare una serie di ossessioni che andranno a delineare una visione sempre più onnicomprensiva e multimediale.

Sarà infatti il magniloquente tour di supporto al disco, con un’imponente scenografia da 275000 dollari basata sui lavori del pittore tedesco George Grosz, a segnare definitivamente la svolta soul, immortalata nel doppio David Live ma soprattutto nel documentario Cracked Actor, chiara testimonianza della fragile condizione psichica di Bowie in quel periodo.

Ripulito, una volta per tutte, dagli eccessi glam, risorgerà indossando i panni sobri e distinti, per quanto ancora tossici, dell’Esile Duca Bianco, fino a trasformarsi in dandy elettronico folgorato dal krautrock e da tutta la cultura mitteleuropea sotto il cielo grigio di Berlino. Tutto e il contrario di tutto nell’arco di un solo decennio. Potrebbe valere una carriera intera, ma sono soltanto gli anni ’70 di David Bowie. Uno, nessuno, centomila.

di Francesco Sacco