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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [17]

«I bianchi possono imparare a suonare la chitarra, ma non riusciranno mai a cantare il blues. Non hanno abbastanza anima perché non hanno sofferto abbastanza».

Parola di Muddy Waters, quantomai tranciante nel giudicare, intorno alla metà degli anni ’60, le nuove leve del british blues, principali artefici di quel revival che è riuscito a dare un nuovo impulso al genere traghettandolo verso la modernità e, gradualmente, verso il circuito mainstream.

Il discorso di Waters era, chiaramente, frutto di una serie di riflessioni di carattere storico-antropologico pressoché inappuntabili, ma in seguito la sublimazione del dolore attraverso quelle dodici battute darà vita a una serie di esperienze white oriented imprescindibili, favorendone il processo di emancipazione dai vincoli di quella che un tempo era, a tutti gli effetti, una questione razziale.

Gran parte del merito è da attribuire all’affermazione dei vari John Mayall, Rolling Stones, Led Zeppelin ed Eric Clapton (la cui parabola umana basterebbe da sola a rovesciare le convinzioni del padre del blues elettrico), ma agli albori degli anni ’80, quando i padri putativi avevano già detto tutto, il sacro fuoco del blues tornò a divampare alimentato dai germi del punk e della new wave.

E mentre in Australia c’era chi rielaborava brutalmente le radici della musica americana in chiave avantgarde (Birthday Party), negli States, la fusione malata tra blues, rockabilly e punk guidata dai Cramps porterà al proliferare di un intero sottobosco di matrice roots che marchierà in modo indelebile l’underground a stelle e strisce.

È questo lo scenario in cui mossero i primi passi, a Los Angeles, i Gun Club di Jeffrey Lee Pierce, all’epoca insospettabile presidente del fan club dei Blondie, ossessionato, in realtà, dalla musica del profondo Sud, da Robert Johnson e dal fantasma di frontmen messianici come Jim Morrison ed Elvis Presley. Un background piuttosto evidente già dal leggendario debut del 1981, Fire Of Love, manifesto di quel punk-blues (qualcuno parlerà di voodoobilly) in grado di rivitalizzare un genere apparentemente anacronistico in tempi di synth imperanti.

Pochi album, in effetti, hanno contribuito a tener viva la fiamma del blues come Fire Of Love.

Un blues anfetaminico imbastardito dalle istanze hardcore e lanciato a mille all’ora sulle frequenze del punk, fino a esaurirsi in danses macabres convulse con cui esorcizzare i tormenti di un animo, quello di Pierce, terribilmente incline all’autodistruzione, logorato da temi ancestrali quali sesso, amore e morte.

Prodotto a budget ridotto dalla Slash Records e caratterizzato da una certa tendenza all’improvvisazione, spinta all’eccesso soprattutto dal vivo, l’album attirerà l’interesse della Animal Records di Chris Stein, in cabina di regia per il secondo lavoro in studio. E sarà proprio il chitarrista dei Blondie a influenzare la – seppur leggera – svolta stilistica dei Gun Club in Miami, meno impetuoso e certamente più calibrato del suo ingombrante predecessore, ma probabilmente vertice compositivo di una band giunta alla piena maturità in appena un anno.

Il delirio schizofrenico e il clima omicida dell’esordio, dettati dall’alternanza tra scorribande elettriche e improvvise frenate ansiogene, vengono ora attenuati donando a quella tensione strisciante un’aura ancor più lugubre e sinistra, comunque pronta a esplodere, come da copione, in furiosi voodoobilly (Like Calling Up Thunder, Bad Indian e Sleeping In Blood City) o in solenni cavalcate dai toni epici.

È il caso di Texas Serenade, Brother And Sister e, soprattutto, Carry Home, opener paradigmatica in cui rintracciare i prodromi di questo nuovo corso innervato di massicce dosi di country e steel guitars.

Una recherche che amplia un immaginario roots debitore non solo nei confronti del blues del Delta, addentrandosi in territori oscuri e minacciosi dove regnano il caos e l’irrazionale. Al di là dell’apporto di Stein, determinante nell’evoluzione del suono dei Gun Club la performance di Pierce, sciamano occulto ormai totalmente posseduto dallo spirito di Jim Morrison, capace di trasfigurare e trascinare nel torbido persino un classico antimilitarista come Run Through The Jungle dei Creedence Clearwater Revival.

Due concetti diversi di giungla: da un lato il Vietnam, dall’altro bisognerebbe scavare negli abissi di una mente complicata, nelle sue innumerevoli ossessioni, a partire dall’amour fou per Poison Ivy dei Cramps (già urlato in For The Love Of Ivy su Fire Of Love). Difficile stabilirlo con esattezza, di certo, pochi hanno saputo rendere così personale un brano pressoché intoccabile: l’ha scritta John Fogerty, ma potrebbe tranquillamente essere l’ennesimo incubo di Pierce.

È forse questo l’emblema dell’atmosfera morbosa che avvolge la Miami dei Gun Club, un non luogo in cui abbandonarsi a rituali esoterici con cui indagare l’ignoto (Watermelon Man), il mistero dell’amore (The Fire Of Love) e il lato oscuro delle radici della musica americana. Emblematico, in tal senso, il capolavoro Mother Earth, ballad crepuscolare che rivela definitivamente il vero volto del Pierce songwriter e il suo status di interprete magnetico in grado di proiettare la tradizione country in una dimensione ultraterrena.

Nonostante il risultato finale, il primo step verso l’allontanamento dal punk di Miami sancirà lo split della line-up originale (Ward Dotson alla chitarra, Rob Ritter al basso e Terry Graham alla batteria), ormai ridotta a semplice backing band del leader.

Il successivo EP Death Party, con una formazione rimaneggiata, sembra recuperare per un attimo il furore dell’esordio, ma è una breve parentesi destinata a rimanere un caso isolato. Assoldati la bassista Patricia Morrison e il chitarrista Kid Congo Powers (già presente nella versione embrionale della band, The Creeping Ritual), Pierce proseguirà la ricerca sonora avviata con Miami nel confessionale di The Las Vegas Story, per poi flirtare addirittura con il dream pop in Mother Juno, prodotto da Robin Guthrie dei Cocteau Twins e registrato con una nuova sezione ritmica: Nick Sanderson dei Clock Dva e Romi Mori, bassista di origini giapponesi con cui Ramblin’ Jeffrey Lee intraprenderà un’intensa relazione sentimentale.

Saranno loro ad accompagnarlo nelle ultime uscite targate Gun Club: il controverso Pastoral Hide And Seek (1990) e il blues canonico ma quantomai sofferto di Lucky Jim (1993), amaro epilogo avvelenato dall’ombra dell’amore clandestino tra Sanderson e la sua Mori. È questo il testamento artistico di Jeffrey Lee Pierce, sconfitto tre anni più tardi dall’eterno ritorno dei soliti demoni, consumato dal fuoco di un amore sempre più simile a quelle maledizioni ancestrali evocate dalla sua personalissima visione del blues, mai come in questo caso inteso come crocevia del dolore. Semplicemente, un Elvis dall’inferno.

di Francesco Sacco