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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [2]

Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi. L’incipit di “A Tale of Two Cities” di Charles Dickens, in effetti, ben si presterebbe a introdurre la storia raccontata in questa seconda puntata di “Warehouse”.

Una storia di orfani degli anni ’60 emersi in un contesto avveniristico ancora alle prese con la rivoluzione del ’77, soprattutto in Inghilterra. Una storia fatta di gente giusta nel momento sbagliato, e per questo destinata inesorabilmente all’oblio.

Se sul finire del decennio, negli Stati Uniti, c’era già chi aveva interpretato le istanze del punk in chiave postmoderna (Suicide, Television e Pere Ubu, giusto per citarne alcuni), senza rinnegare del tutto il passato, nel Regno Unito i semi del “no future” continuavano a germogliare in direzione opposta, trovando terreno fertile nel gelido esistenzialismo di Joy Division, Cure e Bauhaus, distante anni luce, per tematiche e sonorità, dall’immaginario sixties.

Difficile, in uno scenario simile, trovare elementi tanto anacronistici quanto i Soft Boys, quattro outsider fuori moda/fuori posto intrippati di pop e psichedelia, fissati con il bizzarro universo di Syd Barrett, le melodie cristalline dei Beatles, le armonie vocali dei Beach Boys, l’elettricità dei Kinks, il jingle-jangle dei Byrds e le asimmetrie di Captain Beefheart e della sua Magic Band.

Guidati da Robyn Hitchcock, songwriter acuto e irriverente coadiuvato da Kimberley Rew (chitarra), Matthew Seligman (basso) e Morris Windsor (batteria), i Soft Boys rappresentarono un unicum nel florido calderone della new wave e del post-punk, filone metabolizzato attraverso il recupero personale di un repertorio démodé che, oltre a dare il via alla neo-psichedelia britannica e anticipare il Paisley Underground (la sua variante roots d’oltreoceano), ispirerà non poco il sound dell’intero movimento C86 e icone alternative quali R.E.M. e Replacements.

Dopo un primo album, A Can Of Bees (1979), zeppo di intuizioni brillanti, seppur embrionali, il loro curioso revival troverà forma definitiva in uno dei grandi capolavori dimenticati della storia del rock: Underwater Moonlight.

Pubblicato nel 1980, mentre i Bauhaus esordivano con In The Flat Field e Ian Curtis si congedava dal mondo con Closer, l’album è un originale esempio di psych-pop chitarristico aggiornato all’era del punk, nervoso e spigoloso, contaminato da visioni lisergiche disturbanti e soluzioni armoniche irregolari.

Forte di un imprinting tanto fantasioso, Underwater Moonlight riesce a superare in stravaganza persino i suoi modelli, proiettando i Byrds post Fifth Dimension e il surrealismo di Barrett in una nuova dimensione sempre più visionaria e onirica, popolata da vecchi pervertiti, creature crepuscolari e insetti sottopelle che potrebbero tranquillamente rispecchiare l’idea di romanticismo del miglior David Cronenberg (Kingdom Of Love).

 

Un “sottosopra” kafkiano dove coltivare dieci canzoni vintage oblique, frammentarie, trasfigurate da un’indole sovversiva sotterranea che inizia a insinuarsi subdolamente nelle invettive anti-thatcherismo di I Wanna Destroy You, opening-track al vetriolo edulcorata da coretti surf dall’effetto quantomai straniante.

Ma sono soltanto le prime avvisaglie di un approccio intellettuale e stralunato ancor più destabilizzante nei successivi trentatré minuti.

È il caso dell’attacco schizoide di Rew e del tribalismo sinistro del duo Windsor/Seligman in Old Pervert; del crescendo paranoico di Insanely Jealous; dell’ironica title-track, sorta di summa che chiude il cerchio tra statue animate, calamari giganti e una struttura imprevedibile interrotta da un refrain liberatorio, sulla scia dell’altra potenziale hit, Tonight.

Sono questi i capolavori di un album che non conosce punti deboli, impreziosito da numeri pop d’alta classe (gli arpeggi squillanti di Queen Of Eyes e la scanzonata Positive Vibrations), trip strumentali (You’ll Have To Go Sideways) e blues allucinati (I Got The Hots) in cui l’intreccio tra la chitarra acida di Rew e la poetica sopra le righe di Hitchcock raggiunge nuove vette di abrasiva inquietudine.

Paradossalmente, Underwater Moonlight rappresentò anche il canto del cigno dei Soft Boys, giunti al capolinea nell’indifferenza generale appena un anno più tardi, proprio mentre i Dream Syndicate registravano il primo manifesto del Paisley Underground: The Days Of Wine And Roses.

Robyn Hitchcock (di recente in tour in Italia) intraprenderà un’eccellente carriera solista, sfornando almeno un paio di must assoluti (I Often Dream Of Trains e Fegmania con gli Egyptians) che ne confermeranno lo status di loonie di culto, mentre Kimberley Rew assaporerà il successo nei Katrina and the Waves grazie a tormentoni mainstream del calibro di Walking On Sunshine.

Risale al 2002, invece, la sorprendente reunion con un altro lavoro da manuale, Nextdoorland, in attesa della lussuosa ristampa dello stesso Underwater Moonlight, arricchito, in occasione del trentesimo anniversario, da “invisible hits” quali He’s A Reptile, Only The Stones Remain e “scarti” che farebbero la fortuna di molte band indie contemporanee.

Punto di riferimento per buona parte del pop/rock underground successivo, incluso un certo versante brit-pop (The La’s e Pulp), Underwater Moonlight è un capolavoro avulso da qualsiasi classificazione spazio/temporale, frutto di ossessioni revisioniste all’epoca incomprese ma destinate a riemergere, seppur in sordina, con il dilagare di quella retromania compulsiva tanto cara a Simon Reynolds.

E forse, quarant’anni dopo, resta proprio questo il suo miglior pregio.

Semplicemente, uno dei “1001 dischi da ascoltare prima di morire”.

 

di Francesco Sacco