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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [24]

No Elvis, Beatles, or The Rolling Stones in 1977.
E il 1977, in effetti, fu un anno di grandi cambiamenti per il mondo della musica.

In verità, i Fab Four erano giunti al capolinea da un pezzo, mentre gli Stones erano ancora abbastanza attivi, anche se prossimi a cedere alle tentazioni disco di Some Girls, alienandosi i fan della prima ora ma volando in vetta alle charts americane grazie a una hit ballatissima come Miss You.

Simbolicamente, però, la scomparsa del Re, avvenuta il 16 agosto, coincise con l’esplosione dell’unico movimento che, fin lì, sembrava voler recuperare l’istinto primordiale del rock’n’roll, liberandolo dalle derive cerebrali dei “dinosauri” progressivi: il punk. Tutte sciocchezze, col senno di poi, soprattutto se rapportate al background di certi anti-eroi della first wave britannica che non avevano poi troppo in comune con Sex Pistols e primi Clash.

Tra questi, i Vibrators di Ian “Knox” Carnochan (voce e chitarra) e John Ellis (chitarra), al debutto con un album in grado di competere con i capolavori del periodo, seppur privo della dirompente carica eversiva di Never Mind The Bollocks e The Clash (e per questo considerato forse socialmente meno rilevante). 

Prodotto da Robin Mayhew, ingegnere del suono del Bowie fase Ziggy Stardust, Pure Mania è un disco di grezzo rock’n’roll aggiornato all’era del punk, ma attraversato da una sensibilità pop diversa e da un certo gusto glam vicino ai T.Rex di Marc Bolan, altro nume tutelare scomparso quell’anno.

Un concentrato di scanzonati anthem dal piglio adolescenziale più affine al bubblegum dei Buzzcocks in quel di Manchester che al no future imperante a Londra.

Troppo catchy per i puristi e troppo disimpegnati per esser presi sul serio dal nuovo manifesto socio-politico (ma non da importanti act della seconda ondata quali Stiff Little Fingers ed Exploited), i Vibrators finiranno per sciogliersi dopo un altro paio di dischi di buon livello, in particolare V2, curiosamente il loro maggior successo commerciale.

Lo split porterà Knox a qualche collaborazione sporadica (su tutti, gli ottimi Fallen Angels, side-project con gli Hanoi Rocks), mentre Ellis inizierà a esplorare territori forse più congeniali ai suo reali interessi, a partire dal sodalizio con monumenti prog del calibro di Peter Hammill e Peter Gabriel.

Tornerà al punk negli anni ’90, ma anche in questo in caso si tratta di un’etichetta fin troppo riduttiva per dei tipi come gli Stranglers, caratterizzati sin dagli esordi da un taglio psych e, successivamente, wave piuttosto distante dalle one chord wonders tanto in voga all’epoca. Una fase, per certi versi, oscura (quella post Hugh Cornwell), eppure ricca di gemme nascoste, disseminate tra quattro album in studio assolutamente da riscoprire.

Ne abbiamo parlato con John Ellis, protagonista di questa puntata speciale di Warehouse dedicata in parte ai moti del ’77, visti con gli occhi di chi li ha vissuti in prima linea ma da una prospettiva decisamente differente.

Partiamo dai tuoi primi passi ufficiali nel music business con i Bazooka Joe, band pub rock fondata da te e Danny Kleinman all’inizio degli anni ’70, da cui poi sono passati diversi musicisti che avrebbero avuto un certo ruolo all’interno del movimento punk. Ecco, considerando ciò che avresti fatto poco dopo con i Vibrators, o il percorso dei Dr.Feelgood, ad esempio, quanto pensi sia stato importante il pub rock nello sviluppo del punk?

Innanzitutto, devi chiederti: cosa significano tutti questi nomi? Beh, forse sono semplicemente etichette che consentono ai promoter e alle etichette discografiche di vendere un “prodotto”. Pub rock, in particolare, è un termine confuso. Indica un sound particolare? O significa semplicemente “musica suonata nei pub”, che nel Regno Unito potrebbe essere qualsiasi cosa, dal folk al prog. I Bazooka Joe sono talvolta etichettati come un gruppo pub rock, sì. Ma quando ho iniziato con Daniel, non credo di aver fatto concerti nei pub. Quando me ne sono andato, però, hanno fatto la maggior parte dei loro show proprio lì. A proposito, sai che il primo concerto ufficiale dei Sex Pistols è stato quello di supporto ai Bazooka Joe alla St. Martins School of Art?

Per rispondere in modo specifico alla tua domanda, penso che la maggior parte delle persone coinvolte nel punk sia stata attratta dal tipo di band solitamente messe sotto l’ombrello del “pub rock”.

Band che hanno creato una musica grezza e trascinante influenzata dal blues, dall’R&B, ecc. E molte band punk erano gruppi pub rock prima che il punk diventasse una forma musicale riconosciuta. Gli Stranglers erano un gruppo pub rock. Joe Strummer faceva parte di un gruppo pub rock chiamato 101’ers. Penso ci sia stata una sorta di transizione organica dal pub al punk rock.

Hai vissuto in pieno la rivoluzione del ’77, di cui sei stato grande protagonista con i Vibrators. Che atmosfera si respirava all’epoca?

Beh, penso che “rivoluzione” non sia il modo giusto per descrivere quel periodo. È stato solo un altro cambio di forma culturale creato da una combinazione letale di persone nella musica, nella moda, nei media, ecc. Consiglierei un meraviglioso libro di George Melly intitolato Revolt Into Style che, sebbene scritto diversi anni prima dell’arrivo del punk, descrive il modo in cui i movimenti giovanili divampano, creano un nuovo suono o una moda, per poi diventare rapidamente solo un altro stile consolidato.

Ci è stato detto che è stata una rivoluzione, ma dietro c’erano ancora le stesse vecchie imprese capitaliste. Nel Regno Unito, Punk è ora diventato un marchio storico.

Ancora una volta, per rispondere in modo specifico alla tua domanda, i Vibrators, sebbene visti come una band punk, non erano realmente collegati alla “scena” punk. Dato che avevamo poco più di vent’anni, ma eravamo più grandi di quei giovani che consumavano e creavano punk, in un certo senso abbiamo osservato ciò che accadeva senza impegnarci completamente nell’ “ideologia”. E abbiamo iniziato molto rapidamente a fare tournée in Europa, quindi non eravamo nei luoghi in cui veniva creata la mitologia punk.

Dovresti leggere la letteratura sulla situazione socio-economica nel Regno Unito per capire come l’umore depresso del paese abbia guidato la mentalità di quei giovani che vedevano il punk come un luogo in cui esprimere frustrazioni e rabbia. L’intera idea del “Do It Yourself” tradotta in musica e moda. Ci sono voluti pochi anni di eccitazione prima che diventasse soltanto una parodia di se stesso.

Quell’anno, i Vibrators esordirono con “Pure Mania”, uno dei grandi classici della prima ondata del punk, oggi un po’ ingiustamente dimenticato, a mio modo di vedere (almeno al cospetto dei vari Clash, Sex Pistols e Damned). Che ricordi hai di quelle sessions?

Prima di realizzare Pure Mania, abbiamo registrato alcuni brani per il leggendario produttore britannico Mickie Most. Siamo arrivati ​​alla sua etichetta discografica, la RAK, tramite Chris Spedding, che ci aveva visti suonare dal vivo. Abbiamo inciso un singolo con Chris intitolato Pogo Dancing e ne abbiamo inciso uno per conto nostro che non è stato pubblicato perché poi abbiamo firmato con la Epic Records.

Molti classici che avevo ascoltato da giovane amante della musica erano stati prodotti da Mickie Most, quindi la maggior parte delle volte parlavamo solo di quei grandi dischi, come Hurdy Gurdy Man, Hi Ho Silver Lining, House Of The Rising Sun e via dicendo.

Con il senno di poi, è stato un errore firmare con un’etichetta “pop” in un momento in cui la “credibilità di strada” era importante. È uno dei motivi per cui molti dei giornalisti musicali guardavano la nostra musica con sospetto. Come amante e collezionista di musica per molti anni, prima di diventare un musicista professionista, è stato fantastico essere coinvolto nella creazione di dischi. Lo studio era un posto fantastico in cui stare.

Quando siamo andati lì per registrare Pure Mania, volevamo ottenere un suono “grezzo”, quindi abbiamo chiesto a Robin Mayhew di produrre l’album agli studi di Whitfield Street. Era stato il nostro tecnico del suono dal vivo. Per me è stata in parte un’esperienza di apprendimento, ma soprattutto un’opportunità per far registrare correttamente le canzoni che avevamo suonato live. Perlopiù, ciò che senti nel disco rappresenta proprio il modo in cui suonavamo dal vivo. Penso che l’unica eccezione sia Baby Baby. Quella è una canzone molto “prodotta” in termini di strumenti extra, ecc.

Ecco, rispetto a tante altre band del periodo, ho sempre trovato i Vibrators un po’ diversi,  sia in termini di sonorità, più vicine al glam e al pop, che di liriche. Potrebbe essere uno dei motivi per cui un disco come Pure Mania è un po’ passato in secondo piano? Forse non vi era quell’impulso reazionario tipico del punk?

I commissari e i giornalisti avevano una definizione molto ristretta di cosa dovrebbe essere il punk. Non rientravamo nella loro visione e, come ho detto prima, non facevamo parte della “scena”. La musica che abbiamo creato riflette la musica che abbiamo ascoltato in gioventù. Non dimenticare che avevamo più di 20 anni ed eravamo cresciuti con il pop, il prog, la musica sperimentale ecc. Ma era solo la stampa britannica ad avere questo atteggiamento.

Al di fuori del Regno Unito, Pure Mania è stato ben accolto ed è ancora considerato da alcune persone un grande disco. Personalmente, penso che il nostro secondo album, V2, fosse migliore.

Ma non sono stati solo i Vibrators a soffrire di questo atteggiamento, ovviamente. In termini di esibizioni dal vivo, vedere i Vibrators è stata la loro prima esperienza da “punk band” e siamo ancora tenuti in considerazione da alcuni veri fan.

Recentemente, erano previsti una serie di farewell gigs poi annullati per via di alcuni problemi di salute di Knox, lo storico frontman dei Vibrators. Quanto è stato triste non poter salutare i vostri fan alla vostra maniera?

Fortunatamente, abbiamo avuto solo tre spettacoli per dirci addio. Abbiamo fatto il primo e poi avremmo fatto due serate al famoso Dublin Castle Pub di Dublino. Purtroppo, Knox si è ammalato e abbiamo dovuto cancellare gli spettacoli sold-out. È stato molto deludente per me non poter “go out with a bang”, uscire di scena col botto, come diciamo nel Regno Unito. Ma questa è la vita. Non sempre va come vorremmo.

A proposito di punk “diversi”, per tutti gli anni ’90, sei stato il chitarrista degli Stranglers, altro grande nome esploso nel ’77. Era la fase post Hugh Cornwell,  con Paul Roberts alla voce, periodo che secondo me non ha avuto i riconoscimenti che forse meritava. Come giudichi la tua esperienza con queste altre leggende del punk?

Ci vorrebbe una vita per parlare delle mie esperienze con altri artisti. È strano sentire il termine “leggenda” applicato a persone che perlopiù stanno solo facendo il loro lavoro. Alcuni lo fanno bene e altri male. Mi sono divertito moltissimo a lavorare con alcuni di loro e un po’ meno a lavorare con altri.

In ogni ceto sociale ci sono santi e ci sono diavoli. È lo stesso nella musica. A proposito, il punk era solo una piccola parte della mia vita musicale.

Sono stato coinvolto nella creazione di musica elettronica, nella collaborazione con altri artisti, nella realizzazione di colonne sonore di film improvvisate, nella realizzazione di artwork per album ecc. Ma sono contento ti sia piaciuto il lavoro che io e Paul abbiamo fatto per gli Stranglers.

Ecco, negli Stranglers, quasi paradossalmente parlando di punk, vi era una sorta di approccio progressivo e psichedelico che ben si sposava con la tua visione della musica. Non a caso, negli anni ’80, hai collaborato con Peter Hammill e Peter Gabriel. Come è stato confrontarsi con mondi apparentemente così diversi dopo i Vibrators?

Sì, gli Stranglers erano molto più di una band punk ed è per questo che sono stato molto contento di diventarne un membro. Prima dei Vibrators, avevo fatto molte improvvisazioni, ero un grande appassionato di blues, musica elettronica e folk, quindi si potrebbe dire avessi un vocabolario piuttosto ampio. È stato meraviglioso poi lavorare con artisti come Peter Gabriel e Peter Hammill. Probabilmente, parte della migliore musica per chitarra che ho realizzato è stata per Hammill, sia dal vivo che in studio. Ho anche svolto un lavoro molto interessante con Judge Smith, il co-fondatore di Van Der Graaf Generator. Sono sempre stato molto felice di provare cose diverse musicalmente. In questo momento, sto reimparando a suonare il mandolino per un nuovo progetto.

Negli ultimi anni, hai continuato a dar vita a svariati progetti, con altri artisti, da solista, anche da insegnante, e hai persino fondato una tua etichetta, la Chanoyu Records, che si occupa prevalentemente di musica sperimentale. Com’è la tua vita oggi?

Sto ancora facendo musica, ma mi sto dedicando molto anche alla fotografia. Ho un grande archivio di foto musicali e altri lavori. Ho scritto il mio primo romanzo e spero di iniziare il secondo entro la fine dell’anno, dopo aver finito di mettere insieme un progetto basato sul blues per le esibizioni dal vivo. Spero di fare altri spettacoli del mio show My Life In Negatives, in cui proietto immagini dal mio archivio fotografico, racconto storie e canto canzoni legate alle immagini.

Insegno anche chitarra, cosa che mi piace molto. E se gli Dei saranno buoni con me, spero di finire la mia trilogia di album basati sulla cultura giapponese.

Se qualcuno volesse dare un’occhiata al mio lavoro, probabilmente meglio visitare il mio sito web: www.chanoyurecords.com

Ci sono molti download di musica gratuiti e una gallery delle mie fotografie.
E se qualcuno volesse, invece, dare un’occhiata ad alcune delle mie recenti demo, sono qui: www.soundcloud.com/the-pinch

The end.

di Francesco Sacco