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WAREHOUSE: Dogs d’Amour – Intervista a Tyla J. Pallas [28]

In principio era la Swinging London, negli anni Sessanta fulcro della British Invasion e dunque di quel blues revival che, partendo da Yardbirds e Bluesbreakers di John Mayall, è riuscito a dare un nuovo impulso al genere proiettandolo verso il circuito mainstream.

Merito dei vari Animals, Cream, Faces e, ovviamente, Rolling Stones, principali punti di riferimento di chi, agli albori del decennio successivo, riporterà in auge quelle sonorità oltreoceano, contaminandole con un’indole glam spinta ai limiti del parossismo: i New York Dolls, protagonisti della puntata zero di Warehouse legati a doppio filo alla storia raccontata in questo nuovo appuntamento.

Se da un lato, infatti, l’allucinato recupero della nomenclatura rock’n’roll promosso dalle bambole newyorchesi si rivelerà fondamentale nello sviluppo del punk, dall’altro, negli anni Ottanta, sarà la fonte a cui attingerà un nuovo sottogenere hair/glam decisamente più sporco, grezzo e affine al blues di stampo sixties.

Si tratta dello sleaze metal, salito alla ribalta grazie all’exploit dei Guns N’ Roses, ma anticipato da un paio di band che iniziarono a perfezionare quello stile, seppur in modo meno robusto, in Europa.

Ground zero di questo trend furono i finladesi Hanoi Rocks, veri iniziatori del filone, seguiti a ruota da una serie di nomi che faticheranno maggiormente ad emergere. Almeno fino al travolgente successo di Appetite For Destruction, leggendario esordio di Axl Rose e soci capace di accendere i riflettori su un’intera scena, al di là del look, piuttosto distante dal pop metal da classifica.

È il caso degli inglesi Dogs D’Amour, guidati da Tyla J. Pallas (nome d’arte di Timothy Taylor), cantante, chitarrista ma soprattutto sorta di poeta di strada divenuto immediatamente, con il suo graffio blues e i suoi versi decadenti à la Charles Bukowski, il vero marchio di fabbrica dei “cani” londinesi.

E mentre gli Hanoi traslocavano a Londra per incidere Back To Mistery City, album della consacrazione che attirerà l’interesse di una major, la CBS, nel 1984 i Dogs d’Amour volavano proprio in Finlandia per registrare The State We’Re In, oscuro debut per la Kumibeat Records presto finito nel dimenticatoio, nonostante un tour in supporto al beniamino Johnny Thunders (sì, sempre i New York Dolls).

Dovranno trascorrere altri quattro anni prima di poter dare un seguito a un’opera ancora un po’ acerba, penalizzata da una produzione non esattamente all’altezza, ma già ricca di spunti interessanti. Quattro anni in cui Tyla riuscirà finalmente a imbastire una line-up definitiva, destinata a rappresentare la fase classica della band, ora completata dalla slide di Jo “Dog” Almeida, dal basso di Steve James e dal batterista Bam. È questa la formazione che darà alle stampe quello che è da molti considerato il loro capolavoro: In The Dynamite Jet Saloon.

Uscito nel 1988 per la China Records, l’album è un onesto distillato di puro rock’n’roll ad alta gradazione alcolica, impreziosito dal songwriting dissoluto, tutto whiskey e cuori spezzati, di quell’istrionico troubadour glam. Emblematica, in tal senso, una ballad come How Come It Never Rains, terzo singolo (e futuro cavallo di battaglia nelle loro infuocate esibizioni dal vivo) che garantirà ai Dogs un buon piazzamento nelle charts britanniche, oltre a una discreta rotazione su Mtv. Curiosamente, farà ancora meglio il successivo A Graveyard Of Empty Bottles (1989), Ep acustico pubblicato dopo un tour americano con i Mother Love Bone e arrivato nella Top 20 delle Uk Album Charts.

Malgrado lo scetticismo della casa discografica, sarà il loro miglior risultato di sempre.

Reduci da un’altra tournée di rilievo in compagnia di Ian Hunter e Mick Ronson, la band tornerà subito ad attaccare la spina dando alle stampe ben due album in pochi mesi: l’ottimo Errol Flynn (King Of Thieves negli States), trascinato dal manifesto Satellite Kid, e Straight??!!. Paradossalmente, però, saranno anche gli ultimi vagiti della classic era, prossima a lasciare il posto a quel “cimitero di bottiglie vuote” più volte evocato in decine di canzoni fin troppo sincere.

Il punto di non ritorno è rappresentato da una serata al Florentin Gardens di Los Angeles, nel 1991, quando Tyla porterà alle estreme conseguenze i suoi consueti atti di autolesionismo on stage, provocandosi una ferita così profonda da fargli perdere i sensi durante Back On The Juice. L’episodio spingerà Bam e Jo Dog ad allontanarsi dal frontman sancendo, di fatto, la fine del gruppo, alle prese con il suo “last waltz” su More Unchartered Heights of Disgrace, inciso nel ’93 con il chitarrista Darrell Bath.

Archiviati i sogni di gloria, svaniti su quel palco insanguinato nel cuore di Hollywood, Tyla riprenderà il discorso agli albori del nuovo millennio, dapprima attraverso un paio di semi-reunion estemporanee, successivamente – e questa è storia recentissima – portando avanti il monicker a suo nome con una nuova line-up e, soprattutto, nuovi dischi. Come Tree Bridge Cross, ultima fatica in studio in grado di conferire un’aura più dark (la maestosa titletrack, Journey To The Centre Of The Soul e God Only Knows) a quella formula sempre in bilico tra sfrontatezza rock’n’roll (Buried Alive e Raining Fire) e tenere ballad da saloon intonate davanti all’ennesimo bicchiere di bourbon (Powder Dry, Ghosts e Stole My Love Away, duetto con Spike dei Quireboys). Un lavoro estremamente ispirato (degno di nota anche il bonus disc, contenente versioni alternative in alcuni casi persino superiori alle originali) uscito giusto un paio di mesi fa, alla soglia del quarantesimo anniversario di carriera. L’occasione ideale per raggiungere Tyla e ripercorrere insieme l’epopea dei Dogs D’Amour, raccontata in prima persona da chi non ha mai smesso di esorcizzare i propri demoni attraverso il sacro fuoco del blues. Semplicemente, the last bandit.

Gli anni ’80 sono considerati notoriamente il decennio d’oro dell’hard’n’heavy, soprattutto negli Stati Uniti, dove imperavano le pose plastiche dell’hair metal. Voi, però, da buoni inglesi debitori nei confronti del british blues, avete esordito proponendo e portando avanti un discorso diverso, più ancorato alle vostre radici, al rock’n’roll, al glam. Che idea avevate di quel folle circo intorno a voi che, però, non vi ha mai realmente coinvolti?

Beh, in tutta sincerità, non mi importava granché, sai? Io pensavo solo a quali fossero le mie principali influenze, quindi a gente come Stones, Faces, Thin Lizzy, ma anche Johnny Cash, Chuck Berry e un sacco di blues e soul. Volevo semplicemente creare la mia musica, ispirata da quelli che erano i miei eroi. Tutto qui.

Il vostro primo album, “The State We’re In”, fu registrato nel 1984 in Finlandia, patria di un’altra grande band di stampo glam all’epoca all’apice della notorietà: gli Hanoi Rocks. Cosa vi spinse ad andare addirittura in Scandinavia per il vostro debut?

Guarda, il discorso è molto più semplice di quanto si pensi. Karl, il fratello della fidanzata del bassista, aveva un’etichetta discografica, ci offrì un accordo e noi accettammo. Facile facile.

Dopo “The State We’re In”, ci fu subito un rimpasto della line-up che porterà alla definizione di quella che viene considerata l’era classica dei Dogs D’Amour, a partire dal secondo album, “In The Dynamite Jet Saloon”, per molti il vostro capolavoro. Che ricordi hai di quelle sessions?

Sai, dicono tu non possa ricordare gli anni Sessanta perché non c’eri. Ma sono cresciuto con quella musica ed è parte integrante della mia formazione, quindi ho affrontato la realizzazione di “In The Dynamite Jet Saloon” con aria di sfida, diciamo pure così.

Credo che l’importanza di un album come “In The Dynamite Jet Saloon” sia ben rappresentata anche dal tuo desiderio di ri-registrare quei brani in occasione del venticinquesimo anniversario. Sei soddisfatto del risultato finale?

Beh, ti rivelerò una cosa: in quella versione, c’eravamo solo io e Simon alla batteria, così (Gaz, Matty, Simon e io) abbiamo deciso di prepararne un’altra. È come se avessi la mia nuova formazione classica, quindi arriverà anche un Dynamite 2023. Tra l’altro, l’anno prossimo, i Dogs festeggeranno quarant’anni di attività, quindi arriveranno anche molti concerti!

Curioso, però, come il vostro miglior risultato a livello commerciale sia arrivato con il successivo lavoro in studio, lo splendido Ep acustico “A Graveyard Of Empty Bottles”. Personalmente, ho sempre trovato che quel disco racchiudesse forse la vera essenza dei Dogs D’Amour, e credo lo abbia percepito anche il pubblico…

Beh, io lo adoro, ovviamente, anche se la nostra etichetta, all’epoca la China, non ci credeva davvero perché non capiva realmente la band. Non fosse stato per un ragazzo chiamato Gordon Biggins (il mio attuale manager), che lavorava per loro, probabilmente non sarebbe mai stato registrato o pubblicato, quindi è anche merito suo.

Gli ottimi riscontri di quell’Ep e del successivo album in studio, “Errol Flynn”, sono stati seguiti da un tour in supporto a due icone glam come Mick Ronson e Ian Hunter, mentre in precedenza vi eravate già trovati on the road con un’istituzione punk come Johnny Thunders. Che esperienza è stata condividere il palco con artisti del genere che, suppongo, abbiano avuto una certa influenza sulla vostra musica, al di là del blues?

Ovviamente, sono sempre stato un fan sia dei Mott the Hoople che di Mick Ronson dai tempi degli Spiders From Mars, quindi quando accompagnava David Bowie. Erano davvero ragazzi fantastici. E Johnny Thunders, beh, era semplicemente Johnny Thunders!

Una delle caratteristiche principali dei Dogs D’Amour sono i tuoi testi molto bukowskiani, per così dire, non a caso sei considerato una sorta di poeta di strada. Come si è evoluto il tuo songwriting nel tempo?

Ho letto Bukowski, per la prima volta, circa quarant’anni fa, mentre l’ultima credo sia stata nel 1989. Capirai, dunque, che nel tempo ho poi sviluppato il mio stile, come fai quando ascolti la musica. Puoi farlo anche con gli scrittori e ho letto centinaia se non migliaia di libri nei miei sessantuno anni su questa Terra… almeno finora.

Altra peculiarità è l’artwork, veri e propri dipinti sempre opera tua. Come nasce quest’altra passione?

Sai, ho iniziato a dipingere prima ancora che potessi camminare, suonare la chitarra e tanto meno cantare, quindi ti lascio immaginare quanto possa essere fantastico fare tutte e tre le cose, soprattutto con una certa frequenza.

Da diverso tempo, dopo lo split della formazione classica, hai preso definitivamente in mano il progetto continuando a produrre dischi sempre fedeli al vostro stile, fino ad arrivare all’ultimo “Tree Bridge Cross”, uscito un paio di mesi fa, in cui viene fuori forse il vostro lato più “dark”, a partire dalla suggestiva titletrack. Puoi parlarci un po’ del nuovo disco?

In realtà, ho sempre scritto di argomenti oscuri. Penso a canzoni come “Heroine”, “Planetary Pied Piper” o “What’s Happening Here?”. E più si invecchia, più il mondo sembra serio, quindi scrivo solo di tutto ciò che penso che le persone debbano sapere … nel caso non lo sappiano già.

Non mancano, comunque, quelle classiche ballad alcoliche tipiche dei Dogs, come “Ghosts” e “Stole My Love Away”, quest’ultima con un altro figlio del british blues emerso sul finire degli anni ’80: Spike dei Quireboys, con cui avevi già dato vita agli Hot Knives. Come è nato, invece, questo duetto?

Beh, Spike è mio amico da molti anni e, quando gli ho suonato questa canzone, ha detto che la amava e che gli sarebbe piaciuto cantarci sopra insieme a me. Beh, ho tristemente risposto di no, almeno finché non mi ha offerto da bere. A quel punto, non so come, ho detto sì.

Negli ultimi anni ti sei dedicato anche alla pubblicazione di alcuni album di spoken word, aspetto che credo abbia influito sul tuo stile vocale nell’ultimo disco. Come è cambiato il tuo modo di cantare nel tempo?

Beh, la voce di tutti si abbassa man mano che invecchiamo, fino a un’ottava a volte. È solo un’evoluzione delle corde vocali. E l’ho trovata adatta allo spoken word.

In chiusura, cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo tour?

Come dicevo prima, nel 2023 ricadrà anche il quarantesimo anniversario dei Dogs, quindi, al di là del “Tree Bridge Cross Tour”, faremo un bel po’ di spettacoli a partire dal 12 aprile. È il giorno del primo concerto in assoluto dei Dogs e sarà, anche in questo caso, a Londra.

di Francesco Sacco