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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [8]

Sul finire degli anni ’60, le esplorazioni psichedeliche oltreoceano suggerirono una diversa concezione musicale che trovò terreno particolarmente fertile in Inghilterra, dove una ristretta cerchia di musicisti underground iniziò a maturare una visione più intellettuale, mirata a emancipare il rock dai parametri radio friendly.

Certe tendenze, in verità, avevano già interessato i Beatles di Revolver e Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ma erano soltanto le prime avvisaglie di un nuovo modo di intendere la futura “forma d’arte ideale del ventesimo secolo”. E un impulso determinante, in tal senso, arrivò certamente dalla grande stagione del progressive.

Partendo dalla psichedelia, dal jazz, dalla classica e da tutta la musica colta, il genere portò in dote un concetto di canzone diverso, dalla struttura libera, diluita e complessa, che prediligeva arrangiamento e architettura alla classica formula strofa/ritornello.

Una rivoluzione partita dalle sfumature neoclassiche di gente come Moody Blues, Procol Harum e i Nice diKeith Emerson (poi leader degli ELP), divenuta però un autentico movimento grazie alle “azioni radicali” di una serie di complessi in grado di elevare definitivamente le ambizioni della pop music.

Tra questi, i King Crimson di sua maestà Robert Fripp (ma confinarli al prog sarebbe alquanto riduttivo), i Genesis e gli Yes, fautori di una proposta eterea, dai risvolti medievali e fiabeschi, enfatizzata da una spiccata teatralità (è il caso della band guidata da Peter Gabriel) e da trame intricate su tempi dispari e melodie sognanti. Piuttosto significativa anche la scena di Canterbury, con le sperimentazioni di stampo dadaista dei Soft Machine e il lato catchy dei Caravan, senza dimenticare i trip interstellari dei Pink Floyd post-Barrett, seppur non progressivi in senso stretto.

Se all’epoca, però, la maggior parte insisteva, oltre alla destrutturazione della forma canzone, su tematiche fantasy (elfi, castelli e regni incantati degni del miglior Tolkien), ci fu anche chi mantenne quell’approccio in una dimensione terrena, introducendo una componente filosofica quasi inedita nel mondo del rock. È questa la principale caratteristica del prog esistenziale dei Van Der Graaf Generator, quel quid che li rese di gran lunga i più originali della prima ondata.

Fondati a Manchester dall’istrionico Peter Hammill, songwriter e leader indiscusso, i Van Der Graaf Generator coniarono uno stile avulso dai trend dell’epoca, più vicino alla supplica di un condannato a morte che ai viaggi cosmici evocati dagli altri menestrelli inglesi. Il cosmo, semmai, diventava metafora di alienazione e isolamento, un non luogo claustrofobico in cui proiettare il mal d’être dell’uomo moderno. Fondamentali, in tal senso, i versi e gli psicodrammi partoriti da Hammill, capace di alternare registri differenti – e fasi di schizofrenia acuta – durante composizioni sì laboriose ma comunque distanti da barocchismi e derive virtuosistiche troppo cerebrali.

Si trattava di un’impalcatura quasi essenziale, soprattutto se rapportata alla recherche dei King Crimson o alla grandeur strumentale di Emerson, Lake & Palmer, in cui ogni singolo elemento contribuiva a delineare un sound mai così lugubre e terrificante.

Le percussioni apocalittiche di Guy Evans, l’organo funereo di Hugh Banton, il sax psicotico di David Jackson (l’unico vero solista a partire dal secondo disco): sono tutte pedine assolutamente essenziali nell’economia di un trademark inconfondibile, che proprio da The Least We Can Do Is Wave To Each Other (1970) andrà perfezionandosi nel giro di appena un anno.

Il successivo H To He Who Am The Only One è già un primo, grande capolavoro, impreziosito da episodi memorabili entrati di diritto tra i classici del Generatore (l’esegesi omicida di Killer, la malinconica House With No Door e la visionaria The Emperor in His War Room). Ma è con Pawn Hearts, nel 1971, che il gruppo imporrà il suo manifesto esistenzialista, unanimemente riconosciuto come pietra miliare dell’epopea prog, nonché sorta di precursore di quel romanticismo decadente tipico del goth (e non è affatto una forzatura).

Composto da tre lunghe suite, Pawn Hearts è un monumentale trattato su temi universali quali vita, morte e solitudine: un poema filosofico cupo e spettrale in cui i Van Der Graaf Generator continuano a scandagliare, in modo impietoso, gli abissi dell’animo umano.

L’iniziale Lemmings assume immediatamente foschi contorni allegorici, paragonando il suicidio di massa dei Lemmings, piccoli roditori artici al centro di numerose leggende nordiche, al tragico destino di un’umanità votata all’autodistruzione. Strutturalmente il più complesso, il brano è la quintessenza della formula VDGG: una danza macabra convulsa condotta dall’hammond gotico di Banton e trascinata verso il caos dagli intrecci tra i virtuosismi di Jackson e il drumming pirotecnico di Evans, principali responsabili del consueto saliscendi emotivo dettato dai versi borderline di Hammill.

Introdotta da uno struggente pianoforte, Man-Erg è invece la summa della poetica del leader, un immaginario in cui angeli e assassini convivono e si mescolano fino a confondersi nel subconscio più profondo. È l’eterna lotta tra bene e male, narrata in prima persona da chi, probabilmente, non riuscirà mai a soffocare i propri demoni (“How Can I Be Free? How Can I Get Help? Am I Really Me? Am I Someone Else?”). E quel dualismo darà vita a uno scontro epico da annoverare tra i momenti più sconvolgenti nella carriera della band mancuniana.

L’andamento solenne di piano e organo viene improvvisamente squarciato da un intermezzo impetuoso, dove Hammill, in pieno delirio schizofrenico, dà finalmente voce ai suoi fantasmi su un tessuto ritmico dissonante, frutto degli incastri tra Banton e la chitarra di uno special guest d’eccezione: Robert Fripp. Passata la crisi, il brano recupera la dolce melodia iniziale inseguendo una sequenza circolare ispirata dalla teoria nietzschiana dell’eterno ritorno. Ma è soltanto un’illusione: la quiete prima di una nuova tempesta wagneriana destinata a lasciare il conflitto irrisolto (o forse no).

L’apoteosi del dramma arriva però nella seconda facciata, con l’imponente suite (ben 23 minuti) che chiude il disco.

Suddivisa in 10 movimenti, A Plague Of Lighthouse Keepers è il vertice assoluto dell’arte espressionista dei Van Der Graaf Generator, uno spaccato agghiacciante di desolazione urbana grondante disperazione e fatalismo. In attesa di una redenzione impossibile, Hammill, ormai conscio dell’ineluttabilità di un destino beffardo, conclude la sua discesa negli inferi accompagnato da un senso di sconfitta opprimente. Una tragedia ancora scossa da improvvisi moti d’orgoglio, da un istinto di sopravvivenza non del tutto sopito, pronto a esplodere in scatti nevrastenici su un maelstrom sonoro sempre più instabile, ora elegiaco, ora sulfureo, ora terribilmente tetro.

Tra psichedelia, divagazioni free-jazz e rintocchi sinfonici, il Guardiano del Faro – ennesimo riuscitissimo tropo – prosegue il suo cammino annaspando in uno spaventoso labirinto esistenziale che si rivelerà senza via d’uscita: la luce in fondo al tunnel, in realtà, non è altro che la fine. Ma se quella stessa fine fosse soltanto un nuovo inizio?

Il viaggio allucinante di Pawn Hearts termina così, con un’immagine ricca di simbolismo, con un excipit insolitamente melodico ancora una volta disturbato da tastiere ultraterrene e rumori sinistri, con un dilemma a cui l’uomo non saprà mai dare risposta.

È l’evoluzione definitiva del pessimismo cosmico, è l’ultimo sospiro di chi, tormentato da angoscia e inquietudine, ha preferito dare il cuore in pegno.

Nonostante il successo inaspettato (l’album balzò in testa alle classifiche italiane), Hammill scioglierà la band un anno più tardi per proseguire una prolifica carriera solista, avviata da Fool’s Mate proprio nel ’71, che gli farà persino guadagnare l’ammirazione del nascente post punk (chiedere pure a Johnny Rotten).

Seguiranno due reunion: la prima intorno alla metà degli anni settanta con quattro album di buon livello (Godbluff, Still Life, World Record e The Quiet Dome/The Pleasure Dome, con il violinista Graham Smith al posto di Jackson), la seconda nel 2005, seppur sostanzialmente orfana del “Van Gogh del Sassofono”, fuori dai giochi subito dopo il tour di Present.

Ancora in attività (l’ultimo Do Not Disturb risale al 2016), i Van Der Graaf Generator saranno in Italia a settembre 2021 per sei date.

di Francesco Sacco