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WAREHOUSE Special Edition: Intervista a Geoff Tate [26]

I remember now, I remember how it started…

Nel 1988, quando uscì Operation: Mindcrime, tra i grandi concept della storia del rock, i Queensrÿche erano già uno dei nomi più originali della scena heavy metal americana, all’epoca alle prese con l’affermazione di quell’hair/glam che caratterizzerà, anche a livello iconografico, buona parte degli anni ’80.

Merito di un EP omonimo e due album (il debut The Warning e, soprattutto, Rage For Oder) piuttosto distanti dal suono patinato imperante in classifica, portatori semmai (mal)sani di un’idea di musica colta che, al di là del look, poco o nulla aveva in comune con i vari Ratt, Mötley Crüe e Poison.

Quello della band di Seattle, non a caso poi patria del grunge, era un metallo pe(n)sante che non si limitava soltanto a rielaborare la lezione dei padri putativi (Judas Priest e Iron Maiden su tutti), aggiornata secondo i canoni di un background chiaramente progressivo, no: dietro la proposta dei Queensrÿche vi erano ambizioni di ben altra portata.

Un sound gelido, cupo, nebuloso, diretta emanazione del senso di angoscia tipico di quell’immaginario cyberpunk dai risvolti esistenziali guidato da Blade Runner, senza dimenticare la distopia espressionista di Fritz Lang e le profezie di George Orwell.

Un inquietante “Urlo in digitale” dettato dall’incubo delle derive tecnologiche e dalla minaccia di un processo di deumanizzazione già teorizzato altrove dal krautrock (l’elettronica dei Kraftwerk) e dall’art-rock (il Bowie berlinese), da cui Geoff Tate e soci erediteranno insospettabili suggestioni wave di matrice mitteleuropea.

Nonostante gli ottimi riscontri di critica e pubblico (in particolare per Rage For Order), mancava, però, la definitiva consacrazione mainstream, pressoché un miraggio considerando una formula così diametralmente opposta a chi monopolizzava le charts nel 1986 (i Bon Jovi di Slippery When Wet, ad esempio).

Paradossalmente, il successo arriverà due anni più tardi, grazie alla naturale evoluzione di quel percorso in direzione ostinata e contraria, all’atteso banco di prova per ogni band prog-oriented che si rispetti: un concept album. Pubblicato nel maggio ’88, Operation: Mindcrime è il frutto di un equilibrio quasi miracoloso in cui la componente cinematica, tra melodramma e psicodramma, della musica dei Queensrÿche trova perfetto contrappunto in un thriller fantapolitico ambientato in un’America piegata da corruzione, miseria e tossicodipendenza.

È in questo scenario che si sviluppa la tragica storia di Nikki, eroinomane finito suo malgrado al centro di un intrigo governativo ordito dal Dr. X, leader di un fantomatico gruppo di ribelli che sfrutterà il ragazzo per sbarazzarsi dei suoi rivali, trasformandolo, sotto ipnosi, in un killer a sangue freddo.

Ma è soltanto il punto di partenza di un album destinato a fare proseliti (chiedere ai Dream Theater) e divenire un bestseller: un vibrante j’accuse nei confronti di una società segnata dal fallimento dell’edonismo reaganiano,  di un modello da esportazione narcisista, colpevole di aver creato una frattura ancor più profonda in un Paese diviso da forti tensioni economiche e sociali.

È la fine dell’American dream secondo i Queensrÿche, artefici di una rock opera impeccabile per ispirazione, arrangiamenti, qualità di esecuzione e un songwriting in grado di coniugare velleità intellettuali e sensibilità pop, veicolando un messaggio quanto mai attuale.

Non stupisce, dunque, l’audace desiderio di riprendere il discorso nel 2006, per narrare la redenzione di Nikki in un degno sequel impreziosito dal cameo di Ronnie James Dio nei panni del Dr.X. Ma soprattutto – e questa è storia recentissima – non desta meraviglia la voglia di riproporlo dal vivo, nella sua interezza, di Geoff Tate, uscito dalla band da ormai dieci anni, ma sempre legato a doppio filo a un capolavoro entrato di diritto tra i classici hard’n’heavy.

È esattamente ciò che farà a breve, per tre date, in Italia. L’occasione ideale per incontrarlo e rivivere il processo creativo dietro uno dei più grandi concept della storia, raccontato da chi ha saputo dar voce (e che voce!) a quell’autentica  rivoluzione chiamata Operation: Mindcrime. There’s a revolution calling.

Partiamo proprio dalla sezione italiana di questo tour, incentrata su Operation: Mindcrime, uno dei più grandi concept della storia del rock. Come nacque, all’epoca, l’idea dietro una rock opera simile? Tra l’altro, parliamo di uno script dai contenuti quanto mai attuali…

Vivevo a Montréal, dove frequentavo assiduamente un certo bar. A quel tempo, si parlava molto di disordini politici lì. Mi sedevo spesso ad ascoltare le persone del posto, e c’era questa specie di leader un po’ sinistro da cui ho avuto l’idea per il Dr. X.

Così, mi sono semplicemente seduto, ho ordinato da bere e mi sono inventato l’intera storia mentre ascoltavo i loro discorsi.

Il personaggio di Mary, invece, proveniva da un night club, sempre a Montréal, dove vidi ballare una donna vestita da suora. È successo più o meno nello stesso periodo, quindi, a quel punto, mi sono messo al lavoro per entrare nella storia.

Come è stato misurarsi, da band fortemente debitrice nei confronti del prog, con la dimensione concept? Qualcosa in cui far confluire non solo musica, ma spesso anche letteratura, drammaturgia, cinema…

Beh, quasi naturale. Ho sempre subito il fascino delle grandi storie o dei concept album e mi interessa particolarmente anche mettere insieme diversi tipi di arte e musica.

Calcolando, appunto, il vostro background, “Operation: Mindcrime” credo fosse un po’ la naturale evoluzione del vostro modo di intendere la musica (penso soprattutto a un album come “Rage For Order”), piuttosto distante dalle band metal in voga in quel periodo. Eppure, quasi paradossalmente, segnerà la vostra svolta a livello commerciale, fino a guadagnare il disco di platino. Ti saresti mai aspettato un’accoglienza simile per un lavoro dal taglio così intellettuale?

In tutta sincerità, non mi sono mai posto il problema se potesse essere un successo commerciale o meno. Ero così immerso nella storia, e così innamorato dell’intera opera, da non pensarci minimamente. Ecco perché il fatto che così tante persone lo abbiano adorato mi ha preso piuttosto alla sprovvista. Ovviamente, però, in quel momento fui molto felice di avere tanta gente accanto a me in quella sorta di viaggio emotivo. Amavo davvero Mindcrime ed ero felice di poterlo condividere.

Considerando il ruolo e l’importanza di “Operation: Mindcrime” nella storia del metal, quanto pensi sia stato rischioso dare un seguito a quell’album epocale quasi vent’anni dopo?

Anche in questo caso, non ho pensato a nessun tipo di rischio commerciale o altro. Sentivo che la storia non fosse completamente finita e desideravo rivisitarla. Mi è piaciuto davvero tanto scrivere Mindcrime II e credo si leghi molto bene al primo disco.

Nel sequel compare anche Ronnie James Dio, con cui tu avevi già lavorato, negli anni ’80, nell’epica variante metal di Usa For Africa: Hear’n Aid. Che ricordi hai delle sessions di Stars?

Ricordo quanto fossi nervoso in quel momento, con tutti quei musicisti incredibilmente talentuosi riuniti (all’incirca 40, ndr). Ma Ronnie mi ha fatto sentire molto a mio agio, rendendo l’intera esperienza decisamente migliore grazie alla sua gentilezza.

Da quando sei uscito dai Queensrÿche, è tua consuetudine rispolverare ed eseguire dal vivo anche altri album della band, come farai in altre città europee con “Empire”. C’è un disco che sei particolarmente soddisfatto di eseguire dal vivo?

A dire il vero, mi piacerebbe un giorno eseguire dal vivo ogni singolo album che ho fatto, nella sua interezza. Li amo davvero tutti, credimi.

Dopo i Queensrÿche, hai dato vita a un progetto chiamato proprio “Operation: Mindcrime”, non una semplice operazione nostalgica, ma una band che ha portato avanti un progetto originale sempre più progressivo, con ben tre album all’attivo. Come valuti la trilogia che va da “The Key” a “New Reality”?

È anche una storia, seppur forse più difficile da seguire. Ho scritto quei dischi in un momento in cui stavo vivendo molti sconvolgimenti e penso avessi soltanto bisogno di togliere tutta quella musica dal mio sistema. La storia che ho scritto mentre percorrevo le 500 miglia del Cammino di Santiago.

“New Reality” è davvero l’ultimo atto del progetto o, cinque anni dopo, pensi ci sia qualche possibilità di tornare con altro materiale? O magari con un disco da solista…

Di certo, attualmente, ho quasi completato le registrazioni di un altro album. Lo pubblicherò l’anno prossimo.

E questa è una gran bella notizia. Ultima domanda: qual è, secondo te, il miglior concept della storia? E quale il più sottovalutato?

Close to the edge degli Yes credo sia il miglior concept che abbia mai ascoltato. E anche il più sottovalutato.

Geoff Tate – Operation: Mindcrime and Greatest Hits Tour

23 set 2022: Stazione Birra, Roma
24 set 2022: Revolver Club, San Donà di Piave (VE)
25 set 2022: Druso, Ranica (BG)

di Francesco Sacco