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WAREHOUSE: canzoni, storie e classici dimenticati [14]

Era il migliore dei tempi, era il peggiore dei tempi.

Nel 1993, reduci dall’epocale Use Your Illusion Tour, che ne aveva certificato lo status di live act esplosivo (celebri le tre serate al Tokyo Dome del febbraio del ’92), i Guns N’ Roses erano ormai ben distanti dall’essere a tutti gli effetti una band.

Strano a dirsi, ma il gruppo più famoso al mondo, almeno all’epoca, era in realtà da tempo logorato da lotte intestine che, dopo l’addio a Steven Adler, avevano portato all’allontanamento di Izzy Stradlin, fondamentale nel definire quello stile in grado di recuperare lo spirito del rock’n’roll in un panorama hard’n’heavy neutralizzato dalla sbornia plastica dell’hair/glam.

L’avventura dei sei teppisti di Los Angeles era agli sgoccioli, ma c’era comunque un contratto da rispettare, quello con la Geffen, ansiosa di replicare il boom di vendite degli ultimi due capitoli. In un ambiente quanto mai teso, privi del loro principale compositore e catalizzatore, difficile trasformare un equilibrio sempre più precario in dirompente forza creativa.

L’unica via apparentemente percorribile diventò così quel classico espediente piuttosto diffuso tra band giunte ormai al capolinea: un album di cover.

Pubblicato il 23 novembre del 1993, The Spaghetti Incident? fece storcere il naso un po’ a tutti, dai fan alla critica generalista, probabilmente condizionati da un hype quanto mai esagerato. Tutto ciò non andò comunque a intaccare il successo dell’ennesimo disco di platino, ancor oggi, però, vittima di pregiudizi che lo hanno reso, almeno sulla carta, uno dei peggiori farewell di sempre.

Beh, nulla di più errato: The Spaghetti Incident? non è soltanto un ottimo cover album, ma ha anche il grande merito di aver riportato sotto i riflettori, grazie a un monicker blasonato come quello dei Guns N’Roses, diversi eroi sotterranei fino a quel momento dimenticati.

Un disco in cui rintracciare il vero background del gruppo, nascosto dietro i vari Damned, Dead Boys, Fear, Johnny Thunders e i New York Dolls, ma anche nomi di una certa risonanza mainstream come T.Rex, Stooges, i Sex Pistols più oscuri di Black Leather e persino i coevi Soundgarden.

E nella maggior parte dei casi, si trattava di riproposizioni superiori alle versioni originali, eseguite con una passione e un’ispirazione disarmanti se rapportate a una genesi tanto travagliata. L’occasione ideale, insomma, non solo per rispolverare un lavoro ingiustamente sottovalutato, ma anche per parlare brevemente, attraverso una sorta di Top Five, di chi ha contribuito a rendere i Guns N’Roses i più punk della scena sleaze/glam anni ’80. E i più amati/odiati, ovviamente.

Ain’t it Fun feat. Michael Monroe (Dead Boys)

Nati da una costola dei seminali Rocket From The Tombs (l’altra confluirà nei Pere Ubu), i Dead Boys rappresentarono il lato più selvaggio, ma paradossalmente anche più raffinato, della prima ondata del punk americano generata dai Ramones. Merito, soprattutto, di un frontman carismatico come Stiv Bators e della chitarra abrasiva di Cheetah Chrome, memore, nelle sue scorribande soliste, della lezione proto-punk impartita anni prima in quel di Detroit da Mc5 e Stooges.

Provenienti da Cleveland, Ohio, furono tra i grandi protagonisti dell’epopea del CBGB di New York, il tempio del punk e della new wave, ma bruciarono in fretta. Appena due album in studio (il capolavoro Young, Loud And Snotty nel 1977 e We Have Come For Your Children l’anno seguente) e il live Night Of The Living Dead Boys (1981), prima dello scioglimento che porterà Bators a ottenere un modesto successo con un altro culto underground: i Lords Of The New Chruch, supergruppo dalle sfumature gotiche completato da Brian James (The Damned), Dave Tregunna (Sham 69) e Nicky Turner (The Barracudas).

Ain’t It Fun, da We Have Come For Your Children, è uno dei manifesti dei Dead Boys (l’altro è Sonic Reducer), capace di raggiungere nuove vette drammatiche nella versione dei Guns N’Roses, trascinata dagli assoli sanguinanti di Slash e dal duetto da brividi tra Axl Rose e Michael Monroe degli Hanoi Rocks. È il primo singolo estratto da The Spaghetti Incident? e, probabilmente, il vertice assoluto del disco.

Raw Power (The Stooges)

Gruppo cardine della scena di Detroit di fine anni ‘60, gli Stooges, in piena utopia hippy, si fecero portavoce di una furiosa rivoluzione musicale in netta contrapposizione con l’ideologia flower power, portando all’eccesso le derive nichiliste dei Velvet Underground e le liturgie psichedeliche dei Doors, per un devastante mix di rock, blues, garage e persino free jazz (Fun House) che gettò le basi del punk.

Un ensemble anarchico, grezzo, violento, guidato da quell’animale da palcoscenico che risponde al nome di Iggy Pop, leader lascivo e oltraggioso che, tra atti di esibizionismo e autolesionismo estremi, è riuscito a guadagnarsi un posto d’onore tra i grandi frontmen della storia del rock.

Almeno due lavori seminali (l’omonimo debut del ’69 e Fun House) e un terzo, controverso disco prodotto da David Bowie (deus ex machina anche della carriera solista dell’Iguana), Raw Power, inizialmente snobbato da critica e pubblico. Rivalutato in seguito, Raw Power arriverà ad esser considerato quasi alla pari dei primi due classici, tanto da spingere i Guns N’Roses a riprendere la titletrack in una tiratissima cover marchiata a fuoco, ancora una volta, dalla chitarra di Slash, da una sezione ritmica granitica e dall’incessante lavoro alle tastiere di Dizzy Reed. A dividersi il microfono: Axl e Duff.

New Rose (The Damned)

Nell’immaginario collettivo, Clash e Sex Pistols sono certamente i principali responsabili dei tumulti punk nel Regno Unito, partiti da Londra e sviluppatisi a macchia d’olio nell’intera terra d’Albione nel ‘77.
Non furono però gli unici a mettere a ferro e fuoco la scena londinese, ricca di eroi “minori” un po’ eclissati dall’impatto sulla cultura popolare delle pose irriverenti di Johnny Rotten, del nichilismo di Sid Vicious o delle invettive demagogiche di Joe Strummer. Il caso più eclatante riguarda i Damned, primi a diffondere, con il singolo New Rose sul finire del ’76, quel verbo preso in prestito oltreoceano (Ramones e Heartbreakers) e divenuto un autentico movimento reazionario negli anni pre-thatcherismo. Furono anche i primi a pubblicare un intero album (Damned Damned Damned nel ’77) e i primi ad andare in tour negli States, aspetti che vanno ben oltre i dati statistici.

Poco da fare: se il punk è arrivato in Inghilterra, il merito è soprattutto dei Damned, incarnazione del lato più teatrale e rock’n’roll di quella sacra triade. E New Rose fu una folgorazione per molti, inclusi i Guns N’ Roses, la cui furiosa versione, posta dopo l’ingannevole opener Since I Don’t Have You (un classico doo-wop degli Skyliners), indicherà le reali intenzioni di The Spaghetti Incident?.

Attitude (Misfits)

Ancora McKagan al microfono per l’unico brano in repertorio sin dal tour di Use Your Illusion. Se l’iconografia Misfits, di recente, ha subito una curiosa impennata, soprattutto nel campo dello streetwear, ciò che merita assolutamente maggiore attenzione è la loro la musica, fino all’inizio degli anni ‘80 vittima di uno dei casi più paradossali della storia.

Principale antesignano dell’hardcore, sin dall’annus mirabilis 1977, il loro sgangherato beach-punk dalle venature orrorifiche era già una delle grandi attrazioni del CBGB quando pubblicarono, fuori tempo massimo, il debut Walk Among Us.

Ma era il 1982 e l’HC aveva forse detto tutto, assecondando un’aggressività ora più matura e consapevole, in centri nevralgici quali California, Washington e la stessa New York. Complice anche una produzione non esattamente all’altezza, l’album non ottenne la giusta considerazione condannando la band all’oblio nel giro di pochi mesi, tra tensioni interne e violente esibizioni sempre più simili a una carneficina che a un concerto. I

l frontman, Glenn Danzig, intraprenderà una fortunata carriera solista nel segno di un hard’n’heavy particolarmente lugubre, passando dall’horror demenziale degli esordi al ruolo di sciamano occulto posseduto dal fantasma di Jim Morrison; mentre il bassista Jerry Only, dopo anni di battaglie legali, riformerà i Misfits nel 1995, sfruttando il nuovo interesse suscitato dagli omaggi di Guns N’ Roses e, in seguito, Metallica (Garage, Inc.).

I Don’t Care About You (Fear)

A proposito di hardcore, live rissosi e one shot epocali, sul finire degli anni ’70 nessuno era più pericoloso e politically uncorrect dei Fear. Nonostante fossero parte integrante della scena losangelina sin dal 1978, anche loro arrivarono al debutto piuttosto tardi, sulla scia del famigerato documentario The Decline Of Western Civilization Part I, in cui è proprio la band guidata da Lee Ving a dare il meglio del peggio di sé. Pubblicato sempre nel 1982, The Record è semplicemente uno dei testi base di un hardcore qui evoluto, fedele alla velocità di esecuzione tipica del punk, ma trasfigurato da soluzioni ritmiche e armoniche che strizzavano l’occhio al blues, al southern rock e persino ai ritmi sincopati del free jazz.

RESEDA, CA – 1982: Lee Ving, lead guitarist and singer for the punk band Fear, avoids charging fans on stage during a 1982 concert staged at the Country Club in Reseda, California. (Photo by George Rose/Getty Images)

Sono le basi di quel crossover, successivamente affinato dai Minutemen di Double Nickels On The Dime, che sul finire del decennio caratterizzerà il mondo dell’alt-metal. Oltre all’innovativa proposta musicale, vi era poi quell’atteggiamento estremo e depravato, mosso in realtà da un malsano humour reazionario, che portò i Fear a guadagnarsi la fama di criminali prestati al rock, mai così corrotto da liriche di una bassezza infinita. E non è un caso che il loro manifesto rispondesse al titolo di I Don’t Care About You, urlato a squarciagola dai Guns per “salutare” degnamente, in un ultimo, brutale atto di misantropia acuta, l’ormai folle circo intorno al nome della band.

Bonus Tracks:
Human Being (New York Dolls) & You Can’t Put Your Arms Around A Memory (Johnny Thunders)

Grandi protagonisti della prima puntata di Warehouse, i New York Dolls rappresentarono il trait d’union transgender tra il nichilismo dei Velvet Underground e l’attitudine no future che esploderà definitivamente in Inghilterra nel ’77.

Formata nel 1971 dal chitarrista Johnny Thunders, la band recuperò il rock’n’roll ribelle di Chuck Berry e della british invasion (Rolling Stones su tutti), cavalcando e spingendo ai limiti del parossismo l’estetica glam che iniziava ad affermarsi nel Regno Unito. Erano questi i principali ingredienti del loro revisionismo allucinato, perfezionato, seguendo le folli indicazioni di un Frankenstein sessuomane sotto anfetamina, nel leggendario debut del 1973.

Sarà il tessuto connettivo che collegherà avanguardia e retroguardia, la new wave dei Suicide con il rock’n’roll e il blues di Chicago, passando per le deflagrazioni elettriche del proto-punk.

Nonostante lo status di band di culto, il disco vendette pochissimo e la Mercury scaricò le cinque bambole dopo una seconda prova meno convincente, Too Much Too Soon, contenente il brano scelto dai Guns per omaggiare i principali ispiratori di tutto lo sleaze/glam anni ’80: Human Being.

Il tributo più sentito, però, arriva con You Can’t Put Your Arms Around A Memory, tratta dal primo album da solista di Thunders, So Alone (1978), toccante dichiarazione d’amore di Duff nei confronti di uno dei grandi beautiful losers della storia del rock, scomparso per overdose due anni prima. Forse il momento più emozionante dell’intero Spaghetti Incident?.

Si tratta, ovviamente, soltanto degli highlights di un disco che, a conti fatti, segnerà la fine dei Guns N’ Roses, ridotti in seguito a una macchina da soldi parodistica nelle mani del solo Axl Rose, prima della milionaria semi-reunion del Not In This Lifetime Tour nel 2017.

Il commiato di The Spaghetti Incident?, probabilmente, continuerà a dividere (almeno fino al prossimo disco di inediti?), ma al di là dell’indiscutibile qualità di esecuzione, resta una sorta di prezioso manuale sui grandi nomi dimenticati del punk e non solo (anche UK Subs e Nazareth). Qualcosa che, nel bene e nel male, ha comunque avuto una sua funzione storica, soprattutto nel cuore di chi è arrivato a un certo tipo di musica da questi solchi.

All the smart boys know why.

di Francesco Sacco